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Sinistra tassatrice, l'ultima follia: ora vuole colpire i boomer

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Corrado Ocone
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Le strade del paradiso (presunto) sono lastricate di buone intenzioni. Viene in mente questo vecchio proverbio a sentire un’idea che ogni tanto riaffiora, e che è stata ripresa l’altro giorno dal Financial Times, che ha sentito per l’occasione esperti e professori: tassare i super ricchi per permettere allo Stato di offrire beni e servizi a chi più ne ha bisogno, cioè giovani alla ricerca del primo lavoro, o in genere per finanziare le politiche pubbliche volte a migliorare la salute, l’educazione o a «combattere il cambiamento climatico». Una extratassa per chi ha fatto extraprofitti che interesserebbe soprattutto i baby boomer, cioè coloro che, nati nei venti anni successivi alla Seconda guerra mondiale, hanno goduto di condizioni economiche più favorevoli rispetto a quelle delle ultime generazioni. Una sorta di tassa di solidarietà o di tassa di “successione per tutti”, come l’ha definita il massimo teorico contemporaneo della diseguaglianza, cioè l’economista francese Thomas Piketty.

I DETTAGLI DEL DIAVOLO
Chi potrebbe non essere d’accordo con un’idea tanto semplice e apparentemente tanto giusta? Eppure, il diavolo, come si sa, ama nascondersi nei dettagli. La solidarietà è certa una bella cosa, e certo andrebbe incentivata, ma andrebbe fatta su basi volontarie: l’uomo è prima di tutto un essere libero e fare del bene è un’attività che non può essere imposta per decreto. A parte ciò, il problema maggiore è però, a mio avviso, a monte, ed è culturale e ideologico. Non è un caso, infatti, che i politici più sensibili a questo tema siano di area laburista o socialista. L’idea che fa da sottofondo alle loro idee è infatti quella che vede il profitto come qualcosa, in fondo, di immorale, sporco. O, almeno, come un male minore, da sopportare almeno finché non si trova una seria e praticabile alternativa al sistema capitalistico. Un’alternativa che, come è noto, tutte le volte che è stata cercata e messa in opera, ha causato un bel po’ di danni e addirittura tragedie. In un’ottica liberale il profitto è invece la giusta ricompensa alla creatività e al sacrificio individuali. Ed il termine di extraprofitto è semplicemente un non senso: un profitto è tanto più grande, quanto più chine gode ha avuto doti di inventiva e visione superiori rispetto a quelle di ogni altro. L’elemento però ancora più dirimente da opporre ai tassatori senza limiti e remore è che il profitto genera non solo e non tanto una ricchezza personale, ma aumenta il benessere complessivo della società: attraverso gli investimenti, ma anche attraverso la messa in circolo di quel denaro che, finendo poi nelle tasche di tutti, contribuisce alla ricchezza complessiva della società. Luigi Einaudi, che se ne intendeva, si era persino prodigato in una difesa degli speculatori: richiamandosi anche all’etimologia del termine (da speculum, specchio), lo speculatore era per lui semplicemente chi aveva saputo vedere più lontano degli altri.

 



LO STATO E IL SINGOLO
C’è poi un ulteriore elemento da considerare, non certo secondario. È infatti assolutamente errata e deleteria l’idea che lo Stato sia superiore ai singoli individui e che possa mettere impunemente le mani nelle loro tasche a favore di un bene collettivo deciso arbitrariamente dal legislatore (in Italia è ancora vivo il ricordo di quando il governo Amato effettuò un prelievo forzoso dai conti correnti dei cittadini). Questa idea, da un punto di vista teorico, rompe quel sottinteso patto sociale che vige fra Stato e cittadini negli Stati di diritto. Esso presuppone che l’autorità pubblica rispetti l’autonomia individuale e che si limiti a stabilire un insieme di regole universali (e non ad personam e retrodatate come quella che qui si vorrebbe mettere in atto) che permetta la libera azione e intrapresa, anche e soprattutto economica, dei suoi cittadini. Che sia lo Stato a decidere l’allocamento delle risorse, togliendo agli uni e dando agli altri, oltre che errato teoricamente, è anche foriero di perversi pratici, come la storia e la cronaca ampiamente dimostrano. Prima di tutto, essendo lo Stato non un’entità astratta ma un insieme di uomini operanti, chi può garantire che essi non favoriscano lobby ed interessi precisi, casomai ammantandosi di nobili ideali? E come fanno i membri dello Stato a sapere meglio e più dei singoli coinvolti cosa, in una data situazione, sia bene e cosa male? Se la solidarietà e la filantropia, benemerite e da incentivare, da fatto privato diventano fatto pubblico, la corruzione è sempre dietro l’angolo.

PADRI VERI E ARTIFICIALI
Ritornando infine alla proposta di cui ha parlato il Financial Times, non mancherà chi dirà che essa sancisce un doveroso patto di solidarietà fra generazioni. Ma siamo sicuri che un Padre artificiale, il Leviatano statale, sappia più e meglio dei padri naturali ciò che è giusto per i loro figli? Sarebbe più lungimirante, allora, che lo Stato promuova una cultura dell’impresa, ritirandosi quanto più è possibile e responsabilizzando i singoli, piuttosto che assumere sudi sé i panni che non gli si addicono del Grande Benefattore. Che poi anche quella che un tempo era considerata una “bibbia del capitalismo”, cioè la stampa finanziaria inglese, strizzi oggi gli occhi ai vari pikettismi più o meno di maniera, la dice lunga sullo stato di crisi in cui versa l’élite occidentale. 

 

 

 

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