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Diffamazione, basta carognate: via il carcere

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Se passano le nuove norme i giornali si trasformeranno in contenitori di veline dei politici. E addio informazione

Nicoletta Orlandi Posti
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di Maurizio Belpietro Carlo Federico Grosso è un docente di diritto penale assai conosciuto. Non solo ha uno studio tra i più noti a Torino, ma in passato è stato vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura. Le sue opinioni dunque contano, anche perché le fa valere sulla Stampa, di cui è l'editorialista principe per le questioni giuridiche. Ieri il professore ha scritto sul quotidiano piemontese un editoriale a proposito della famosa questione della diffamazione e delle norme che si vorrebbero introdurre in cambio della depenalizzazione del reato. La faccenda è già stata affrontata dal nostro Filippo Facci prima e da me dopo. In sostanza, per cancellare la  possibilità di procedere penalmente nei confronti dei cronisti accusati di diffamazione - possibilità che ha portato alla condanna di Alessandro Sallusti a 14 mesi di carcere per un articolo che non ha scritto, ma solo pubblicato, e in cui non si fa il nome del diffamato - il Parlamento si appresta a varare misure draconiane, prevedendo condanne pecuniarie pesantissime (100 mila euro che potrebbero diventare duecento in caso di recidiva) e dure sanzioni a carico dei giornalisti, i quali potrebbero perfino essere sospesi dalla professione per anni. Con leggi siffatte questo mestiere diventerebbe impossibile, perché in redazione dilagherebbe il panico. Già ora si rischiano ammende salate e, come si è visto, il carcere; domani si potrebbe essere chiamati a rimborsare l'equivalente dei guadagni di una vita, ammesso naturalmente di averli. Nessun cronista si sentirebbe libero di scrivere, ma esiterebbe davanti ad ogni notizia, preferendo il quieto vivere allo scoop. Nessun direttore pubblicherebbe alcunché se non dopo mille autocensure preventive. Invece di articoli, sui giornali uscirebbero veline: note ufficiali che nessuno potrebbe contestare. Le pagine dell'economia diventerebbero una grande rubrica tipo «Le aziende informano», spazio parapubblicitario che la stampa mette a disposizione a chi intende comunicare. Le pagine dedicate alle notizie dai tribunali si trasformerebbero in una specie di albo giudiziario a cui affiggere le sentenze e le ordinanze di custodia cautelare, senza commenti di sorta o titoli espliciti: non si sa mai. Nelle pagine politiche non troverebbero spazio giudizi men che ossequiosi: dire di un onorevole che è una mezza cartuccia potrebbe costare un patrimonio. In pratica, converrebbe cambiare mestiere. E, per i lettori, rinunciare a comprare la copia quotidiana. Sarebbe la fine della libertà di stampa, il bavaglio vero all'informazione. Sarà per questo che Carlo Federico Grosso dice che lui lascerebbe tutto così com'è, togliendo la carcerazione, ma evitando di toccare l'impianto normativo che oggi regola la diffamazione. Non c'è bisogno di una nuova legge, basta e avanza quella esistente, opportunamente depurata della parte che prevede le manette per i giornalisti. Il diffamato vuole che sia riabilitato il suo onore? Non lo otterrà vedendo il redattore dietro le sbarre, ma se sul giornale sarà pubblicata la sentenza di condanna del cronista. Già oggi è possibile: che ci vuole a renderla una regola? Il diffamato ritiene però di aver patito un danno e vuole una quantificazione patrimoniale? Anche questo è previsto con l'attuale legislazione, non a caso il giudice che Sallusti avrebbe diffamato pur non avendolo mai nominato (misteri della giurisprudenza), oltre al carcere per il giornalista ha ottenuto per sé 30 mila euro. Sessanta milioni di vecchie lire per due righe in un articolo, più di quanto si ottiene per un'ingiusta detenzione, fissata dalla Cassazione in 235,83 al giorno.  Insomma, i giornalisti (e gli editori) già oggi pagano i propri errori e ha ragione l'ex presidente del Csm: non c'è bisogno di nessuna riforma o di sanzioni alternative al carcere. Quelle servono solo ai politici per vendicarsi di chi li critica: altro che esigenza di tutelare il diffamato. La legge con misure draconiane è la carognata di una Casta che si vede agli sgoccioli e pensa di rifarsi su chi ogni giorno ne denuncia i difetti e le colpe. Cari Gasparri, Chiti, Berselli, Maritati e Casson (propositori bipartisan di alcune delle norme punitive) abbiate il coraggio di gettare nel cestino la nuova legge e di presentarne una semplice senza la carcerazione. È quella la misura che serve, non altre. Basta un emendamento di una riga. Se lo farete dimostrerete di non avere a cuore le vostre cause, ma solo quella della buona informazione e gli italiani tutti ve ne saranno grati. In tal modo eviterete al Paese la figuraccia di un giornalista in carcere per aver pubblicato le proprie opinioni, una condanna che ci avvicinerebbe ai Paesi del terzo mondo, non alle democrazie europee. Dopo la sentenza dell'Aquila, già siamo guardati con sospetto, perché in nessun altro posto al mondo si viene condannati per non aver predetto il terremoto, sgomberando una città o una Regione. Immaginatevi cosa penseranno di noi se oltre al carcere per gli scienziati che non si sono trasformati nel mago Otelma, avremo pure la detenzione per il direttore che ha pubblicato parole pesanti contro un giudice senza farne il nome. Alla fine daranno ragione a Berlusconi, riabilitando la sua battaglia antitoghe. PS. C'è un solo passaggio dell'editoriale di Carlo Federico Grosso che non mi convince ed è quello in cui definisce stravaganti le sentenze che condannano i giornalisti ad una pena detentiva, quasi che si trattasse di eccezioni, di eventi rari. Non è così. Basta che ci sia di mezzo un giudice e la condanna al carcere è quasi assicurata. Io stesso ne ho ricevuta una a quattro mesi per un articolo che non ho scritto, ma solo pubblicato. L'autore, il senatore Lino Jannuzzi, non è stato processato perché la sua opinione è stata giudicata insindacabile dalla Corte costituzionale. Ma ciò che per la Consulta non può essere sindacato dalla giustizia, secondo i giudici doveva da me essere sindacato e cioè censurato. Un non senso di cui il professore Carlo Federico Grosso dovrebbe essere informato, giacché il querelante è un suo conoscente, ossia quel Gian Carlo Caselli che fa il procuratore a Torino. [email protected]

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