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Antisemitismo, ebrei in fuga da Usa e Ue: meglio tornare in un Israele in guerra

Claudia Osmetti
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Mentre l’El Al, la compagnia di bandiera israeliana, modifica i suoi boeing per farli diventare areo cargo, in modo da supplire al fabbisogno di generi di prima necessità, comprese le scorte di medicinali che, in guerra, non bastano mai, gli ebrei francesi e inglesi e americani e canadesi pensano a riempire gli ultimi voli disponibili per l’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv. Tanti riservisti, certo: che, specie nelle ultime tre settimane, hanno lasciato famiglie, amici e lavoro, in Europa come negli Usa, per imbracciare un fucile mitragliatore Uzi e andare in prima linea, sulla linea di Gaza, a difendere lo Stato ebraico dalla furia di Hamas. Ma anche molta gente comune: commercianti, imprenditori, avvocati, camerieri e studenti che hanno sempre più paura di vivere qui, nell’Occidente geografico. E che quindi preferiscono trasferirsi lì, nell’unico Paese occidentale del Medioriente. Anche se è in guerra.

A Gerusalemme, il ministro dell’Aliyah, l’Immigrazione ebraica in Israele, Ofir Sofer, parla attraverso i numeri e i numeri sono che i suoi uffici stanno registrando un incremento delle richieste di informazioni circa la possibilità di fare ritorno in Israele, possibilità prevista per legge dal 1950 per gli ebrei che vivono fuori dai suoi confini territoriali, che va dal 149% in più in Francia al più 81% nel Nord America. Si tratta di cifre impressionanti, ma che impressionano ulteriormente se si leggono in relazione all’ultimo rapporto della Jewish agency for Israel, l’Agenzia ebraica per Israele, redatto sullo stesso argomento e concentrato nei primi sei mesi del 2023: da gennaio a giugno di quest’anno, gli ebrei dell’Europa occidentale che hanno fatto aliyah, cioè ritorno, sono stati “appena” 889, il 44% in meno del 2022.

 

Tra loro si contano 393 immigrati francesi (che restano la fetta maggiore, ma che segnano uno scarto di meno 59% rispetto al periodo precedente) e 171 immigrati inglesi (meno 40%). L’unica percentuale in rialzo, fino a prima del 7 ottobre, era quella dei 22.851 ebrei dell’Europa dell’Est (più 32%), sul cui spostamento, ovviamente, pesano le condizioni del conflitto in Ucraina.

Ora lo scenario è diverso, in sostanza ribaltato: se fino a un mese fa le statistiche dell’aliyah erano in calo, adesso prendono a correre e pure vertiginosamente. «Siamo in uno stato di emergenza», dice Sofer. E “stato di emergenza” non è tanto quello della guerra in corso a Gaza, quando quello degli attacchi antisemiti che si stanno verificando a Los Angeles e a Berlino, a Vienna e a Milano, a Parigi e a Londra. «I documenti che ho ricevuto», continua Sofer, «sono molto preoccupanti. Il nostro obiettivo dev’essere rafforzare i legami che abbiamo e sostenere le comunità che stanno dalla parte di Israele».

 


È un’apprensione lecita per due motivi. Il primo è di carattere pratico: Israele è un piccolo Stato, del tutto assimilabile, sia per estensione geografica che per popolazione, alla nostra sola Lombardia. Un’immigrazione di massa, seppure lo stesso governo israeliano non perda l’occasione per ribadire che «Israele aspetta tutti», rischierebbe di diventare un mini tsunami quantomeno sotto il profilo gestionale. Ma la ragione che maggiormente giustifica il timore odierno di Gerusalemme è un’altra.
È l’aumento a dismisura di episodi di violenza contro gli ebrei in questa parte del Mediterraneo. Ossia a casa nostra. Secondo il report Italia 2020 dell’istituto di ricerca Eurispes, il 61,7% degli italiani pensa che i fatti di antisemitismo siano “casi isolati”.

 

 

Epperò solo nell’ultima settimana si è verificato il “caso isolato” di antisemitismo con la scritta «Zionist are not welcome» fuori da un ristorante di Napoli (primo novembre); oppure il “caso isolato” di antisemitismo coi manifesti degli ostaggi israeliani in mano ad Hamas deturpati e vandalizzati al memoriale della Shoah di Bologna (3 novembre); o il “caso isolato” di antisemitismo con la donna di Lione accoltellata in casa sua dopo che le avevano pittato un’oscena svastica sul portone di casa (4 novembre); o ancora il “caso isolato” di antisemitismo col signore ebreo di 69 anni morto in California solo perché sventolava una bandiera israeliana e alcuni sostenitori della Palestina-libera lo hanno colpito con un megafono (7 novembre); o anche l’ennesimo “caso isolato” di antisemitismo con l’asilo Anna Frank di Tangerhuette, nella Sassonia Anhalt, che vuole cambiare norme per non urtare la sensibilità degli immigrati (6 novembre). Per essere “casi isolati” la lista è un tantinello troppo lunga e il risultato è che gli ebrei nel vecchio e nuovo continente si sentono più al sicuro in Israele sotto i missili di Hamas che in Europa o negli Stati Uniti sotto i cortei a sostegno del jihadismo palestinese. Alla faccia di tutti quelli che si preoccupano sì, ma dell’«islamofobia». È vero, semmai, che quello dell’antisemitismo tutt’altro che isolato è un campanello di allarme (o una sirena) che noi per primi, noi occidentali, dovremmo ascoltare. Ma che stiamo ignorando.

 

 

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