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Israele e Hamas, Yves Mény: "In questa guerra il problema è l'Islam"

Francesco Carella
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«La verità è che per la questione palestinese non c’è una soluzione credibile e realizzabile in tempi ragionevoli. La qual cosa produrrà un ulteriore aumento dell’antisemitismo». È pessimista Yves Mény sul nuovo conflitto in Medio Oriente e sui riflessi negativi che esso sta avendo in tutto il mondo occidentale. Il professore, presidente onorario dell’Istituto universitario europeo, avverte che «questa volta il problema, più che in altre occasioni di guerra, è soprattutto affare dell’Europa».

L’affermazione è di quelle che spiazzano chi ascolta. Dice Mény: «Se sfogliamo un manuale di storia apprendiamo che gli europei fin dai primi anni del Novecento avevano pensato di risolvere la questione ebraica con il sostegno alla creazione di uno Stato israeliano così come era stato teorizzato dal padre del sionismo Theodor Herzl e formalizzato per mezzo della risoluzione Onu 181 del novembre 1947, che prevedeva la costituzione di due Stati quello di Israele e quello della Palestina. Ci si era illusi, all’indomani della tragedia della Shoah, di potere scrivere la parola fine sull’antisemitismo. Oggi, a distanza di molti decenni, con la presenza crescente di musulmani immigrati in Europa il problema (essendo il mondo islamico sostanzialmente filo-palestinese) è destinato a riproporsi nelle nostre città- complice la cecità della sinistra radicale - con forza e con sviluppi imprevedibili».

 

 

Ascoltando la sua analisi, la sensazione è che dobbiamo ancora fare i conti con un “passato che non vuole passare”. 
«Penso di sì. L’odio nei confronti degli ebrei ha radici storiche di lunga durata che sarebbe difficile affrontare in questa sede. Limitiamoci ad osservare che esso cambia natura dopo la tragedia della Shoah. Nel giro di pochi anni si afferma un altro tipo di antisemitismo fondato sul rifiuto della fondazione dello Stato d’Israele, nonché sull’emarginazione dei palestinesi». 

Negli ultimi anni si registra uno strano capovolgimento rispetto alla questione ebraica. Sembra che destra e sinistra si siano scambiati i ruoli. È proprio così?
«Inizialmente, l’antisemitismo apparteneva alla cultura politica della destra europea. La destra criticava pesantemente sia l’influenza troppo invasiva delle elites ebraiche (in primo luogo quelle bancarie e finanziarie) sia il carattere anti-patriottico degli ebrei (pensi all’Affaire Dreyfus in Francia alla fine dell’Ottocento). In tal senso, la tragedia dell’Olocausto rappresenta il punto culminante. A poco a poco, però, sotto l’influenza di nuovi leader (penso a Marine Le Pen in Francia o a Gianfranco Fini e Giorgia Meloni in Italia), la destra ha eliminato dal proprio alfabeto politico le scorie del passato, schierandosi apertamente al fianco di Israele. Un cammino contrario, invece, è stato compiuto dalla sinistra. Se da un lato, la componente moderata ha confermato il suo sostegno allo Stato israeliano, dall’altra, quella radicale non si è limitata ad opporsi (cosa più che legittima) alla politica dei governi, ma ha finito con l’assumere atteggiamenti palesemente antisemiti».
Di qui la reticenza nel riconoscere, senza equivoci, Hamas come un’organizzazione terroristica nelle manifestazioni organizzate in queste settimane.
«Soprattutto si continua a non comprendere ciò che il 7 ottobre ha svelato, ovvero che oggi occorre fare i conti con un nuovo antisemitismo di massa ancora più radicale sotto l’influenza dell’islamismo e delle frustrazioni delle popolazioni arabe. La dimensione religiosa è diventata predominante a causa sia del fondamentalismo che delle scelte compiute dalle destre religiose in Israele. Il risultato è che questa trasformazione (il passaggio dalla dimensione politica a quella religiosa) rende molto difficile qualunque soluzione di natura negoziale. Le guerre di religione sono feroci, implacabili e spesso insolubili».
Intanto, il conflitto fra Israele e Hamas dopo l’aggressione del 7 ottobre scorso si fa sempre più duro alimentando ulteriormente lo spirito anti-ebraico.
«Si tratta di una situazione esplosiva. Essa è il frutto delle frustrazioni del popolo palestinese, ma soprattutto è opera della propaganda dei regimi arabi che sfruttano ed esacerbano le passioni popolari, per evitare di affrontare le irrisolte questioni interne ai loro regimi. L’avversione nei confronti di Israele, al punto da mettere in discussione la sua stessa sopravvivenza, ha ormai un carattere sistematico».
Resta aperta l’opzione mai percorsa realmente che prevede l’esistenza di “due popoli e due Stati”.
«Una scelta ragionevole e legittima. Il problema è che lo spazio per un secondo Stato non esiste più e non si vede come crearlo a meno di espellere parecchie migliaia d’israeliani ormai insediati nei territori occupati. Penso che nessun governo possa essere al momento in grado di realizzare una simile operazione. Si dovrebbero utilizzare le forze armate per cacciare una popolazione che non intende in alcun modo accettare di partire e lasciare quelle terre. Il nodo da sciogliere è tutto qui e non è cosa facile da fare».

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