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Antisemitismo, battaglia persa sul web: il sito di Auschwitz conquista 53mila utenti

Claudia Osmetti
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La buona notizia è che, dopo l’appello del Memorial di Auschwitz, la sua pagina X ha “riguadagnato” 53mila followers. La cattiva è che prima, cioè unicamente a dicembre, ne aveva persi ben più di 7mila. Che sono tanti, sono troppi e si sono disiscritti pure troppo in fretta per poter essere considerati un caso isolato. Pure lì, nel mare magnum di internet, negli oscuri meandri dei social network dove la soglia d’attenzione è labilissima e la gente cambia idea con la stessa velocità con cui clicca su un banner pubblicitario. Epperò non ha niente a che vedere, qui, la pubblicità. Semmai c’entra la propaganda.

CORTEI E PROPAGANDA

di ritornelli modello From the river to the sea eccetera eccetera, di kefiah e ritratti di Anna Frank vandalizzati, di “giustificazioni” dell’ingiustificabile, di attacchi e richieste e dure rimostranze (ma solo contro Gerusalemme) e il risultato eccolo qua: sembrava che stessimo abbandonando non solo il ricordo del pogrom del 7 ottobre scorso, ma persino il ricordo dell’Olocausto. Sembrava, cioè, che stessero tornando (ammesso che se ne fossero già andati) i negazionisti della Shoah. Invece no. (Piccolo inciso. Noi di Libero facciamo nostro il richiamo del Memorial di Auschwitz, «Aiutaci a mantenere viva la memoria»: per favore visitate il loro account e metteteci quella benedetta spunta azzurra sul “segui”, fa bene a tutti). Invece i nuovi 53mila followers “recuperati” in appena ventiquattr’ore sull’ex Twitter sono una piccola iniezione di speranza. Sono la prova che sì, l’antisemitismo esiste e sì, abbassare la guardia giammai; però no, non si può nemmeno generalizzare.

E se proprio c’è qualcuno che vuole farlo, cioè vuole ampliare i termini della questione, buttandola magari solo sui numeri, e magari solo su quelli digitali, sappia che per ogni utente che ha abbandonato la pagina di uno dei simboli più drammatici della furia nazista contro gli ebrei, ce ne sono sette che hanno deciso di fare il contrario. Di ricordare ciò che è stato (si spera per non ricascarci una seconda volta). C’è, insomma, una sorta di “maggioranza silenziosa” che non viene mai citata, che non riempie le città, che spesso viene zittita solo perché la sua controparte urla (sguaiatamente) più forte. Però esiste. E dobbiamo dircelo.

 

 

 

BATTAGLIA DIGITALE

La guerra tra Israele e Hamas non si gioca sul filo (effimero) di un tweet lanciato nel www. Lo sanno a Tel Aviv e lo sanno perfino nella Striscia di Gaza. L’attivismo da tastiera, nove volte su dieci e forse anche di più, si risolve in quello che è, in niente: tuttavia è il resto, il contorno che sta a fianco a fare la differenza. Auschwitz (come Dachau e Bergen Belsen e Treblinka e i circa 15mila campi di concentramento che hanno vergognosamente riempito l’Europa hitleriana) è uno di quei siti che segnano, ci piaccia o no, la nostra coscienza colletti va.

Non ci sono sfilate pro-Gaza, non ci sono richiami dell’Onu che tengano: nell’era digitale, in cui contano solo i followers o le condivisioni telematiche, 7mila utenti in meno su una pagina che testimonia l’orrore più grande mai accaduto sarebbero stati (se non ci fosse stata la controcarica dei 53mila) uno schiaffo in pieno viso. Come quello delle manifestazioni di Harvard e delle lettere dei prof universitari di Bologna e delle folle palestinesi di Londra e Berlino e Parigi e Los Angeles.

 

 

 

MEMORIA

L’antisemitismo, l’odio verso gli ebrei, rimane una delle piaghe che il 2024 appena iniziato è chiamato a debellare. Non è scomparso col (rinnovato) ricalcolo dei followers del Memorial di Auschwitz, ci mancherebbe. Ma, anche in vista del prossimo 27 gennaio, dobbiamo tenere a mente che non tutti sono disposti a chiudere un occhio o a prendere in mano la bandierina della Palestina (tra l’altro senza conoscere la storia della Palestina). La memoria, dopotutto, serve a questo. A conoscere. 

 

 

 

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