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Hamas, per i giornali italiani Haniyeh e Deif sono simpatiche canaglie

Daniele dell'Orco
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Sulle pagine di Avvenire la messa in relazione tra miliziani di Hamas ed esponenti del governo israeliano è prassi consolidata. Che, però, ha raggiunto picchi inaspettati con le morti di Mohammed Deif e Ismail Haniyeh. Il primo, capo delle Brigate Ezzedin al-Qassam, il braccio armato di Hamas dal 2002, è stato centrato da un raid aereo israeliano il 13 luglio a Khan Younis, nella Striscia di Gaza. La sua morte, però, è stata ufficializzata solo nelle stesse ore in cui il più alto papavero politico dei guerriglieri palestinesi, Haniyeh, capo del Politburo di Hamas, è stato incenerito a Teheran. Così, la profilazione dei due, assolutamente necessaria ai fini giornalistici, ha fatto scivolare il giornale dei vescovi su qualche buccia di banana semantica di troppo.

Deif viene definito un “personaggio teatrale”, un bricconcello secondo nella gerarchia politica della Striscia solo al ricercato numero uno, il leader Yahya Sinwar, che nel tempo libero aveva la passione di organizzare pogrom come quello del 7 ottobre. Haniyeh, invece, viene definito pragmatico, incorruttibile, scaltro. E, nel riferimento, doveroso, della sua responsabilità nei crimini di guerra stabilita dalla Corte penale internazionale si scrive chiaro e tondo «in compagnia di Netanyahu e di Yoav Gallant».

 

 

 

Come fossero la stessa cosa, insomma. Nello stesso comparto, Avvenire inserisce un’intervista a Paola Caridi, storica e studiosa del movimento islamico, che sembra quasi gettare la croce contro l’Israele: «Per Hamas la figura di un leader non è rilevante rispetto all’ideologia e all’organizzazione interna. Bisogna cambiare la prospettiva. Dentro Hamas ci sono persone che ricevono incarichi con delle elezioni. Ismail Haniyeh era stato eletto nel 2017 e nel 2021 come capo dell’ufficio politico: un mandato a tempo che fa emergere la dimensione collettiva di Hamas. Il vero obiettivo di Israele era uccidere il negoziato». Come a dire che l’unico volenteroso per la ricerca della pace fosse colui che la pace l’ha sgozzata. Avvenire, comunque, è in buona compagnia, perché anche altre testate hanno utilizzato toni a dir poco morbidi per parlare della dipartita dei due pezzi grossi di Hamas. La chiave di lettura, sottesa ma non troppo, è sempre la stessa: normalizzare i carnefici e dipingere Israele come un Paese governato da permalosi e intransigenti vampiri.

Per Il Fatto Quotidiano colpire Haniyeh altro non sarebbe che «l’ultimotrofeo» di Israele «per giustificare la sua guerra». Come se Tel Aviv abbia bisogno di qualche giustificazione particolare per una lotta che, al momento, dopo dieci mesi dall’inizio dell’operazione di terra a Gaza, non ha ancora portato alla liberazione degli ostaggi ancora nelle mani dei miliziani. Su Repubblica, il probabile successore di Haniyeh, tal Khaled Meshal sarebbe un «martire vivente». Il martire vivente, ad Al Arabya, il 21 ottobre diceva: «Il 7 ottobre momento geniale, quando abbiamo sorpreso il nemico e le agenzie di intelligence nel mondo. Non abbiamo avviato una nuova impresa di resistenza. Fa parte della legittima resistenza su cui il nostro popolo è d’accordo». Momento geniale. Impresa di resistenza. Queste le definizioni che Meshal associa alla barbara uccisione di 1200 persone. Nell’Italia al contrario questi stessi fogli sono anche quelli che accusano il governo Meloni di essere “stragista” nella ricorrenza del terrore di Bologna. Un governo composto da membri che quel 2 agosto 1980 erano a malapena nati. Dei miliziani di Hamas, invece, ne parlano come fossero i ragazzi della Via Pál.

 

 

 

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