OPINIONE

I tre pilastri per salvarsi nel nuovo mondo

di Mario Sechidomenica 13 luglio 2025
I tre pilastri per salvarsi nel nuovo mondo
7' di lettura

Tre sono i pilastri del nuovo mondo: 1. Il potere delle grandi nazioni di ridisegnare i rapporti di forza con la leva del commercio e della difesa; 2. La fine della lunga fase di espansione della globalizzazione e il ritorno delle “sfere di influenza”; 3. La necessità degli Stati di mantenere la sovranità finanziaria e di bilancio.

Questo mondo l’Unione europea non riesce a leggerlo, nata sulle macerie della Seconda guerra mondiale, risollevata dal piano Marshall varato dagli Stati Uniti, protetta dallo scudo (e dal portafoglio) del Pentagono, l’Unione ha goduto di una eccezionale spinta fino alla riunificazione delle due Germanie e alla creazione dell’Euro. Il ciclo positivo è finito, gli shock hanno messo in luce il vero deficit europeo, l’assenza di una visione politica. Questo buio improvviso causato prima di tutto dal crollo delle ideologie progressiste che hanno dominato la politica sul piano culturale e economico - è quello che nel giro di pochi mesi ha portato l’Unione in rotta di collisione con il nuovo mondo di cui l’America è oggi la guida e l’architetto.

Il primo pilastro. Commercio e difesa sono le leve che muove la Casa Bianca, la lettera di Trump all’Unione europea fa parte di uno schema preciso, ampiamente annunciato nei programmi e esposto dai consiglieri dell’amministrazione. Bastava leggere un documento di 41 pagine scritto da Stephen Miran (oggi capo del Consiglio degli economisti della Casa Bianca) nel novembre del 2024, intitolato «Guida per ristrutturare il sistema globale del commercio» per capire la rotta degli Stati Uniti. Miran ragiona su una scacchiera dove i pezzi si muovono tutti insieme, in uno schema guidato dalla necessità di contrastare il disagio sociale e preservare l’unità nazionale, dunque il commercio (i dazi) e la difesa (una nuova Nato dove gli alleati aumentano il loro contributo) sono inscindibili, così come il ruolo del dollaro, l’andamento del debito sovrano e il riequilibrio della bilancia commerciale. Il faro della politica trumpiana non è Wall Street ma «main Street», l’uomo della strada. È un rovesciamento della politica dei Repubblicani, iniziata con i Tea Party e istituzionalizzata nel 2016 con la prima presidenza Trump fino alla creazione del partito Maga che oggi rappresenta la piccola e media impresa, i lavoratori e le famiglie.
Dritto e rovescio della storia, con i Democratici che nella fase d’oro della globalizzazione con Clinton consegnarono le chiavi della loro politica all’élite finanziaria. Il vecchio gioco è finito e quello nuovo per l’establishment europeo - rimasto con l’orologio indietro e illuso dalla meteora di Joe Biden- è un oggetto misterioso che impone dazi, chiede una postura strategica diversa, utilizza la tattica del «carrot and stick», della carota e del bastone, tratta con Putin e poi fa l’accordo con l’Ucraina sulle terre rare e gli armamenti per dire alla Russia che l’America resta la guida del mondo.

La lettera di Trump all’Unione europea, le tariffe sul commercio al 30% creano sconcerto, ma non è con l’indignazione e la vibrante protesta che si risolve il problema, perché i dazi sono il fulcro dello scontro tra grandi potenze, uno schema negoziale che l’Europa non riesce a affrontare perché è assente l’elemento essenziale, la politica. È da questa incomprensione di fondo che parte la discussione del nuovo bilancio pluriennale dell’Unione che prevede una serie di eurotasse surreali (si va dalla gabella etica sul tabacco alla tassazione punitiva delle grandi imprese, con supplemento di fantasiosi prelievi Green) che hanno solo il fine di alimentare il burosauro brussellese, una manovra devastante sul piano politico e economico, un esproprio della leva fiscale degli Stati, un ulteriore peso sui contribuenti, un aumento del rischio di inflazione. L’Unione europea è sulla strada sbagliata, può correggere la rotta, ma deve fare in fretta, prima che sia troppo tardi.

Il secondo pilastro. Il confronto tra Stati Uniti e Cina domina la scena, la Russia rispetto a questo duello è un attore secondario, serve a Pechino per tenere impegnata la macchina da guerra americana in Europa, ma il quadrante di riferimento è l’area del Pacifico. Putin in questa partita cerca di ristabilire le aree di influenza nello spazio post-sovietico, mentre Xi Jinping ha in mente il dominio nel Mar della Cina, mira a Taiwan e penetra in Europa con la sua manifattura sempre più hi-tech.

Trump e Xi Jinping sono destinati al conflitto? Lo sostiene Graham Allison nel suo libro Destinati alla guerra e fino alla fine dei suoi giorni Henry Kissinger ha avvisato i naviganti sul rischio di una guerra totale tra Washington e Pechino. In questo scenario, un accordo per un G2 tra Cina e Stati Uniti è una possibilità, con la Russia che controlla i cancelli dell’Eurasia, i nostri confini a Est, e si espande a Sud, in Africa, mantenendo le sue alleanze in Medio Oriente (ricordo che Putin manovra il prezzo del gas e del petrolio nel formato Opec+).

Dov’è l’Europa?Èsmarrita, vaga in una terra di mezzo aperta alle scorribande dell’industria del Dragone cinese, con la tentazione suicida (vedere cosa dicono e fanno le sinistre, uno spettacolare kamasutra d’ignoranza di cui l’Italia è protagonista con Elly Schlein e Giuseppe Conte a ballare la rumba dei rivoluzionari con i soldi degli altri) di rompere con gli Stati Uniti, un manzoniano vaso di coccio tra i vasi di ferro. Per nostra fortuna a Palazzo Chigi c’è Giorgia Meloni, sa che con Trump c’è una sola possibilità, negoziare fino all’ultimo minuto.

Il terzo pilastro. Nel 2011, intervistato da Nbc, l’allora presidente della Federal Reserve Alan Greenspan disse: «Gli Stati Uniti possono pagare qualsiasi debito perché possono sempre stampare moneta per farlo. Quindi la probabilità di default è pari a zero». La frase di Greenspan oggi è un memento, ricorda a tutti che la sovranità finanziaria è la cintura di sicurezza.

Ma le banche centrali sono una parte del sistema finanziario, il motore dell’economia sono gli istituti di credito, le banche commerciali che alimentano le famiglie e le imprese, raccolgono e prestano denaro. Le banche, la gestione del risparmio (e attenzione, gli acquisti di stock di debito nazionale) nello scenario descritto sono un tema primario di sicurezza nazionale.

E qui la lettura della sentenza del Tar sul caso Unicredit-Bpm è altamente istruttiva. Perché ribadisce il principio non eludibile: la tutela del risparmio (presente non a caso nella Costituzione della Repubblica) è una questione di sicurezza nazionale, dunque non solo l’utilizzo del Golden Power è legittimo (e aggiungo la parola “doveroso”, perché se il governo non avesse agito andrebbe contro gli interessi degli italiani) ma necessario.

Su Libero ho più volte ricordato che Unicredit non ha risolto il problema della sua presenza in Russia, qui il “pecunia non olet” sollevato da Unicredit non vale, perché Mosca combatte una guerra contro l’Occidente, nel cuore dell’Ue, e i banchieri non possono considerarsi alieni rispetto all’interesse nazionale e allo scenario geopolitico. Il governo italiano nell’esercizio del Golden Power ha messo l’accento su questo tema e tra le prescrizioni ha messo nero su bianco che Unicredit per poter acquistare il controllo di Bpm deve cedere tutte le sue attività in Russia. L’istituto guidato da Andrea Orcel si è opposto in tribunale sostenendo che non si tratta di «una questione di sicurezza nazionale», ma su questo ieri il Tar nel respingere il ricorso ha confermato che siamo in presenza di «interessi strategici». Unicredit, come prescritto dalla stessa Bce, avrebbe dovuto vendere la banca controllata in Russia e non lo ha fatto, non solo, il valore dell’esposizione in titoli di Stato russi è aumentato da 574 milioni di euro a fine 2024 a 754 milioni nel primo trimestre 2025. Parliamo di una nazione, la Russia, che sta finanziando la guerra in Europa. E questo non era un tema di sicurezza nazionale? È molto di più, è un caso di rilevanza globale che pone il Cda di Unicredit in una posizione insostenibile sul piano dell’analisi del rischio geopolitico.

La sovranità finanziaria è un asset strategico dei governi, le banche fanno il loro mestiere in piena autonomia, secondo le leggi del mercato, nel quadro legale nazionale e internazionale, ma non agiscono fuori dalla storia, perché godono delle opportunità offerte dal mondo libero (che tutela la libertà d’impresa) e dunque incontrano il limite della sicurezza di quel mondo di cui la Repubblica italiana fa parte. Tanto è vero questo ragionamento sulla sovranità finanziaria e la sicurezza nazionale che il ricorso di Unicredit sulla prescrizione del governo su Anima e sull’obbligo di «mantenere il peso attuale degli investimenti di Anima in titoli di emittenti italiani» nonché di «supportare lo sviluppo della società» è stato respinto.

La sentenza del Tar del Lazio sul caso Unicredit-Bpm è di enorme rilevanza perché mette nero su bianco lo scenario di quel “mondo nuovo” di cui scrivo da anni, ricorda a tutti gli attori economici in campo che non possono esistere zone grigie, rimette al centro il potere della politica e dei governi rispetto alla pretesa neutralità dell’impresa quando è in gioco la sicurezza nazionale. Non ci sono “affari” c’è prima di tutto responsabilità. Nel “mondo nuovo” dei tre pilastri, i giudici del Tar sono stati dalla parte giusta della storia.

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