Il teatro della geopolitica nell'atto unico di Anchorage

di Enrico Stinchelli*domenica 17 agosto 2025
Il teatro della geopolitica nell'atto unico di Anchorage

3' di lettura

Chi dice che la geopolitica non sia teatro, non ha visto l’incontro di ferragosto in Alaska tra Trump e Putin. La scena si apre con due aerei che atterrano come quinte mobili: preludio grandioso, da ouverture rossiniana. Poi il tappeto rosso e soprattutto le scalette: vere protagoniste, simboli non solo pratici ma teatrali. Perché quelle rampe ricordano immediatamente le scale su cui scendono le di venelle grandi opere: la Fedora di Giordano, la Violetta della Traviata, l’Anna Glavary della Vedova allegra. Solo che, stavolta, le primedonne non sono soprani ma capi di Stato.

Scende Putin, sorprendentemente agile, quasi con passo da ballerino e qui già si ribalta il primo cliché: i tanti che da tre anni lo danno per moribondo o per già sepolto, devono aggiornare la partitura. Putin è vivo, vegeto, e soprattutto scenicamente in piena forma. Trump lo aspetta e gli offre un gesto che lo avvicina più ad Adriana Lecouvreur che ai classici protocolli diplomatici: applaude Putin. Lo accoglie con le mani che battono, come si accoglie la diva che entra in palcoscenico cantando “Io son l’umile ancella”. È un duetto d'agnizione, Trump e Putin si ritrovano come Simon Boccanegra ritrova sua figlia: non una stretta di mano di circostanza, ma un applauso vero e proprio, da comprimario che riconosce alla star il ruolo di protagonista. Il pubblico (quello vero, fatto di giornalisti e telecamere) assiste e annota, assiepato come sulle panche di un loggione, ma non sempre riesce a farsi sentire.

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Alla fine, infatti, Putin porta le mani a imbuto verso la bocca, gesto che in teatro conosciamo bene: il loggione rumoreggia, ma la voce non arriva. E in fondo, i giornalisti ieri erano davvero relegati in piccionaia, impossibilitati a incidere sulla partitura già scritta dai due interpreti. Fin qui la regia, impeccabile nella sua teatralità. Ma la sostanza?

Dichiarazioni di intenti, sorrisi calibrati, frasi solenni sulla pace tra Russia e Ucraina. Solo che Putin, nel suo monologo, ha sottolineato con chiarezza che prima di arrivare alla pace bisogna affrontare i problemi alla radice e non sono pochi, né piccoli. Sono nodi storici, identitari, geopolitici. Non si sciolgono con una stretta di mano. E qui entra un’altra figura, assente in scena ma ben presente in partitura: l’Europa, minuscola e marginale. Non invitata a questo duetto, ma al tempo stesso ingombrante, come terzo incomodo che impedisce la piena armonia.

Poi c’è Zelensky, che ormai appare più come personaggio che come presidente: tre annidi autopromozione continua, apparizioni televisive, discorsi calibrati per le platee, ma sempre con un unico copione. Per lui e per questa Europa, la pace non è un finale gradito: significherebbe la fine della ribalta, la chiusura del sipario, la perdita del ruolo e con ogni probabilità anche di molti territori ormai espugnati dalla controparte. E allora, cosa resta? Una grande messa in scena, certo, ma con il retrogusto amaro del melodramma incompiuto. Perché ieri abbiamo assistito a un duetto, elegante, ben diretto, applaudito.

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Ma già si annuncia un seguito: il prossimo incontro avrà una new entry, Zelensky, e diventerà un terzetto. Con l’augurio che non sia quello del Trovatore, dove gelosia e rancore portano solo a ulteriori duelli, ma un concertato diverso, capace di far pensare a Rossini, magari a Donizetti, che almeno avrebbero saputo vestirlo di leggerezza. La geopolitica, in fondo, non è altro che melodramma. Solo che a mancare, oggi, è un autorevole compositore.

*Autore e conduttore di "Voci in Barcaccia", Rai Radio3, regista lirico e musicologo

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