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Mutui, quanto salirà il costo per gli italiani: l'effetto domino della Lagarde

Michele Zaccardi
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Dopo undici anni la Bce ha deciso di alzare i tassi di interesse dello 0,25% a luglio. Una scelta motivata dall'aumento dell'inflazione che Francoforte prevede al 6,8% per quest' anno.
L'obiettivo è riportarla al 2% nel medio periodo, come impone il mandato dell'Istituto di emissione. Ma la lotta al carovita non è un pasto gratis. Come tutte le medicine, infatti, il rialzo del costo del denaro ha anche degli effetti collaterali.
Il primo, e il più noto, riguarda lo spread, il differenziale di rendimento tra i titoli decennali italiani e gli omologhi tedeschi. Che ieri, subito dopo l'annuncio della Bce, si è allargato: in poco meno di quindici minuti è passato da 214,2 punti base a 227,3, per poi chiudere a 227,5, in aumento del 6,6% rispetto al giorno prima. Il rendimento dei Btp è schizzato così al 3,72%, ai massimi dal 2014. Ciò significa che per lo Stato sarà più oneroso prendere denaro a prestito per pagare la sanità, la scuola e le pensioni. Certo, non tutta la montagna di debito pubblico sarà intaccata dall'aumento degli interessi che i mercati chiedono al governo. La gran parte dei titoli di Stato (il 77% del totale) è infatti a tasso fisso e, almeno per ora, è al riparo dalle turbolenze. Insomma, soltanto le nuove emissioni saranno più care. Secondo il Documento di economia e finanza (Def), un incremento dei rendimenti dei titoli di Stato di 100 punti base, ovvero dell'1%, farà aumentare la spesa per interessi di 26,1 miliardi di euro in quattro anni.

 

 

 

RISCHIO SALASSO IN VISTA - Denaro che il governo dovrà sborsare in più e che verrà sottratto ad altre, e più proficue, destinazioni. Siccome, poi, l'aumento dei rendimenti dei titoli di Stato ne riduce il valore, le banche, che hanno in pancia circa 400 miliardi di debito pubblico, potrebbero diminuire i prestiti che concedono all'economia reale. Ma non c'è solo lo spread da tenere sott' occhio.
Il rialzo dei tassi di interesse che gli istituti di credito pagano per prendere a prestito il denaro dalla Bce, infatti, serve a raffreddare un'economia troppo surriscaldata e, di conseguenza, a rallentare la corsa dei prezzi. È un'operazione molto delicata: scelte troppo brusche possono innescare una recessione. E questo perché l'aumento del costo del denaro colpisce prima le banche e poi, a cascata, tutti gli altri settori. Se gli istituti di credito spendono di più per indebitarsi, infatti, faranno crescere anche i costi dei prestiti che concedono a famiglie e imprese. Ma credito più caro per le aziende significa minori investimenti, dal momento che questi sono finanziati soprattutto a debito. Il rialzo dei tassi, poi, influisce sul mercato immobiliare, in quanto spinge le banche a chiedere interessi più alti a chi un mutuo ce l'ha di già (se a tasso variabile) e a chi vuole farne uno nuovo. Perciò, meno persone potrebbero essere disposte a comprare casa. Una situazione simile a quella che si verificherebbe per il credito al consumo, e cioè i prestiti che le famiglie contraggono per acquistare automobili ed elettrodomestici. Se aumenta il costo per indebitarsi, meno persone vorranno farlo, con la conseguenza che la loro spesa si ridurrà. E il risultato sarà, ancora una volta, un Pil più piccolo di quanto preventivato. Sempre secondo le stime del Def, con rendimenti dei titoli di Stato più alti dell'1%, la crescita sarebbe più bassa dello 0,1% nel 2023, dello 0,4% nel 2024 e dello 0,5% nel 2025: una perdita di 17,8 miliardi di euro. Peggiorerebbero quindi pure i conti pubblici: deficit e debito sarebbero infatti più alti di quanto previsto e il governo potrebbe trovarsi costretto da Bruxelles a tagliare le spese o ad aumentare le tasse per rispettare le regole Ue.

 

 

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