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Desirée Mariottini drogata, stuprata e uccisa a 16 anni dal branco di spacciatori africani: due ergastoli, uno è già libero

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Due condanne all'ergastolo e altre due condanne a 27 anni e 24 anni e sei mesi: è quanto deciso dalla III Corte d'Assise di Roma in relazione all'omicidio di Desirée Mariottini, la 16 enne di Cisterna di Latina uccisa il 19 ottobre 2018 in uno stabile abbandonato nel quartiere San Lorenzo. È finita così l'attesa estenuante. Per Mamadou Gara e Yussef Salia c'è il carcere a vita, mentre Alinno Chima è stato condannato a 27 anni e Brian Minteh a 24 e mezzo, quest' ultimo però torna libero per scadenza dei termini di custodia cautelare. La camera di consiglio si è riunita poco dopo le due del pomeriggio e alle undici di sera ha dato il suo verdetto. «Io e la mia famiglia eravamo preoccupati, ci occupavamo tutti i giorni di lei, l'abbiamo portata da uno psicologo. A fine luglio abbiamo capito che si drogava. Desirée aveva paura quando si parlava di comunità. L'ultimo ricordo? Si era svegliata, era a casa con me e si truccava. Gli occhi, il sorriso, di ricordi belli ne ho tanti. In barca, al concerto di Vasco, al cinema. Ma so che non posso averne altri»: così aveva spiegato mamma Barbara, quando il branco fu rinviato a giudizio.

 

 

 

 

La vicenda è quella di Desirée Mariottini, la povera ragazza di 16 anni drogata, stuprata e uccisa da un gruppo di africani in uno stabile abbandonato nel quartiere San Lorenzo di Roma, nell'ottobre del 2018. Una sentenza che in ogni caso mai potrà lenire il dolore, visto che Desy non c'è più, ma che assicurerà il carcere a vita ai due dei quattro balordi che ne hanno vigliaccamente cagionato la morte. Dalle carte, in mano alla procura, è emerso che la gang di africani aveva stordito la ragazza con un mix di tranquillanti e pasticche. In realtà, quel cocktail di psicotropi dato in pasto a Desirée si è «rivelato mortale», determinando la perdita «della sua capacità di reazione». Ergo: lo stupro si è consumato «con pervicacia, crudeltà e disinvoltura», mostrando una «elevatissima pericolosità e non avendo avuto alcuna remora» nel portare a termine la violenza sessuale e l'omicidio. Del resto, le parole di tre dei quattro accusati non hanno mai lasciato spazio a dubbi: «Meglio che muore lei che noi in galera», così li avrebbero sentiti dire mentre la ragazzina agonizzava. Perché i nigeriani responsabili del delitto «impedirono di chiamare i soccorsi per aiutare» la ragazza. Sotto le sue unghie e sui suoi vestiti, come confermato gli esami disposti dalla Procura, è stato trova to il dna del branco di aguzzini che hanno abusato di lei quando ormai era esanime.

 

 

 

 

Una settimana dopo il delitto, i poliziotti della squadra mobile di Roma e del commissariato San Lorenzo avevano fermato due senegalesi, clandestini in Italia: Mamadou Gara, 27 anni, e Brian Minteh, 43 anni. Gli altri due arresti scattarono nelle ore successive: in manette finirono Alinno Chima e Yusif Salia. Poi, a dicembre, l'inizio del processo e a gennaio 2020 la conferma della Cassazione per il carcere a Chima, alla luce anche «delle risultanze delle indagini tecniche sui campioni biologici» da cui è emersa la «prova della somministrazione degli stupefacenti alla vittima da parte dell'indagato, in specie per quanto concerne il metadone, il cui sovradosaggio è stato individuato dai consulenti come la probabile causa di morte della ragazza». E così arriviamo a novembre, quando dall'aula bunker di Rebibbia il processo si sposta sul luogo del delitto, con un sopralluogo di pm e avvocati durato oltre due ore, nell'edificio dismesso di via dei Lucani. Con mascherine e guanti, pm, giudici, avvocati e agenti della Polizia perlustrano ogni angolo dell'immobile diventato rifugio di clandestini e spacciatori. Dopo la richiesta dell'accusa: ergastolo.

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