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Maria Elisabetta Casellati sulla riforma della giustizia: "Aiuta l'Italia ma servirà anche ai giudici per recuperare credibilità"

Pietro Senaldi
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Presidente, tra le riforme quella della giustizia è in dirittura d'arrivo: quanto era necessaria e quanto ne condivide il contenuto?

«Abbiamo un obiettivo prioritario da raggiungere che ora ci viene chiesto anche da Bruxelles per finanziare la ripresa: ricondurre la durata del processo penale e civile a tempi ragionevoli, in linea con gli standard dei Paesi europei più avanzati. Una giustizia lenta è una giustizia denegata. Una risposta di giustizia che sia certa e fornita in tempi rapidi costituisce inoltre uno dei maggiori incentivi per gli investimenti, una delle condizioni essenziali per attrarre nuove risorse e nuovi capitali».

È questa la strada per fare uscire la magistratura dalla crisi di credibilità nella quale è sprofondata?

«Certamente sì. Ma non basta. Perché la crisi di credibilità è stata alimentata da recenti episodi che hanno inciso fortemente sul rapporto tra la magistratura e i cittadini. Su tali episodi è necessario fare chiarezza, senza sconti di responsabilità. Ma attenzione, non si può fare di tutta l'erba un fascio. Non è questo il vero ritratto della magistratura italiana. L'ho vissuto personalmente nella mia esperienza di avvocato, di Sottosegretario alla Giustizia e di Consigliere del Csm, che mi ha consentito di incontrare e conoscere tanti magistrati di straordinario valore morale e professionale».

 

 

 

È favorevole a una riforma anche del Csm? E in che termini?

«Nel 2015, da componente del Csm, ho sostenuto che il peso delle correnti potesse essere limitato attraverso una riforma del sistema elettorale dei consiglieri togati e ho proposto, senza fortuna, il sorteggio».

La grande emergenza sembrava alle spalle, e invece forse non è così. Quanto è preoccupata da un ritorno del Covid?

«L'aumento dei contagi può in qualche modo rallentare il graduale ritorno alla normalità. Non si può abbassare la guardia. Se il virus ha ripreso a correre, questa volta grazie ai vaccini abbiamo la possibilità di correre più velocemente di lui».

Pensa che per sconfiggere la pandemia sia il vaccino l'arma principale?

«Certo. È così. Come ho già detto, la normalità che stiamo ritrovando è la conseguenza della grande campagna vaccinale che ha consentito di raggiungere più della metà della popolazione italiana. Ma c'è dell'altro. Occorre essere consapevoli che senza la vaccinazione non si potrà mai uscire in via definitiva dalla pandemia. I vaccini servono a tutelare la nostra salute ma sono anche il presupposto per fare ripartire il Paese, per rilanciare l'economia dopo i devastanti effetti che l'emergenza sanitaria ha prodotto su famiglie, mercati, aziende, filiere produttive, lavoratori e liberi professionisti».

Da Bruxelles sono in arrivo i primi fondi per supportare la ripartenza del Paese...

«I 25 miliardi che stanno arrivando sono un'iniezione di fiducia per gli italiani, un'occasione storica per la ripartenza del Paese. Questo debito non può far paura per il futuro dei nostri figli, perché, come dice il presidente Draghi, è un debito buono. E debito buono significa far crescere e modernizzare il nostro Paese attraverso politiche di investimenti. Gli italiani non vogliono assistenzialismo, chiedono soltanto di poter lavorare senza ostacoli».

 

 

 

Quali dovranno essere le priorità negli investimenti?

«A mio parere occorrono investimenti in infrastrutture digitali e quindi in primo piano ci sono ricerca e formazione, che realizzando nuove competenze e nuove professionalità, portano occupazione soprattutto tra i giovani. E poi investimenti in infrastrutture fisiche, dalle opere pubbliche all'edilizia. Perché gli investimenti sono moltiplicatori di Pil. Ma qui bisogna ricorrere a quel "Modello Genova" che, senza burocrazia e senza vincoli, con procedure snelle e semplificate, è riuscito in tempi strettissimi a realizzare un'opera importante. Tutto questo serve certamente per rilanciare l'economia, ma non è sufficiente se non è accompagnato da una seria riforma fiscale. Perché ai cittadini, alle imprese e alle famiglie non si può dare con una mano e prendere con l'altra».

Lei più volte ha stigmatizzato il ricorso alla decretazione, e lo ha fatto anche il presidente della Repubblica con un richiamo al Parlamento e al governo. Cosa deve fare il sistema politico-istituzionale per passare dalla risposta all'emergenza alla gestione delle riforme necessarie a cambiare il Paese e a spendere i soldi del PNRR?

«Se è vero che il governo ha fatto la parte del leone nella fase più acuta della pandemia, che speriamo sia quasi superata, spetta poi al Parlamento curare la fase del ritorno alla legislazione non emergenziale. Il Parlamento è il luogo per eccellenza del confronto democratico, della sintesi e della mediazione. Ed è per questo che deve riacquistare la sua centralità nel rapporto con il governo per affrontare al meglio le sfide future legate all'attuazione del PNRR. In tal senso, ho molto apprezzato la previsione contenuta nel decreto-legge Semplificazioni laddove rafforza il potere di controllo del Parlamento sui vari progetti di riforma legati al PNRR. Questa è la direzione».

Anche quest' anno si rischia di fare un pezzo di scuola in didattica a distanza. Quanto è importante per il Paese restituire alla scuola la sua normalità?

«Non ci sarà un vero ritorno alla normalità sino a quando le scuole, tutte le scuole, non torneranno in presenza e gli studenti non sentiranno il suono della campanella. Perché da questo dipende la solidità dei nostri ragazzi, il benessere delle loro famiglie, il futuro della nostra società. La scuola non è solo didattica. È confronto, interazione, socialità. I computer non potranno mai essere strumento di crescita come sono le relazioni umane, i rapporti con i coetanei e gli insegnanti. Per questo, investire su un ritorno a scuola in presenza è una priorità. Ce lo chiedono i nostri giovani e le famiglie che oggi troppo spesso sono chiamate ad affrontare situazioni di disagio e di sofferenza psicologica».

Lei si spende molto per i diritti delle donne, «vittime principali della pandemia» come le ha definite...

«La ripartenza deve puntare sulle donne, perché sono il nostro asso nella manica, come stanno dimostrando le straordinarie atlete impegnate nelle Olimpiadi di Tokyo. I loro successi sono dovuti alla forza, alla tenacia, alla idealità insieme alla concretezza e alla capacità di soffrire per raggiungere gli obiettivi. Elementi tutti che sono nel Dna femminile. L'esempio formidabile di Federica Pellegrini vale per tutte. Le donne sono state protagoniste di una nuova resistenza in tempi di Covid e possono essere le artefici della rinascita. Sono state in grado di coniugare i nuovi e più gravosi impegni familiari con le loro occupazioni e le loro professioni. Puntare sulle donne significa però dare spazio a nuove politiche sociali che non siano solo incentivi economici all'assunzione femminile. Servono forme di conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro e quindi un reale ampliamento dell'offerta di servizi».

La ripartenza dipende anche dal rilancio della condizione femminile?

«L'ho detto chiaramente aprendo il vertice G20 sulle donne: includere la prospettiva di genere nelle strategie e nei piani operativi post pandemia significa dare slancio alla ripresa economica e sociale dei nostri Paesi. Studi recenti infatti hanno dimostrato che proprio le aziende più attente alla differenza di genere e con una maggiore presenza di donne nei ruoli apicali hanno conseguito, specie negli ultimi anni, un forte incremento dei fatturati, con massimi intorno al 20 per cento. Crescita e parità di genere sono elementi inseparabili e indissolubili. L'agenda femminile deve diventare un elemento trasversale a tutte le politiche». 

 

 

 

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