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Stato mafia, Renato Farina: Travaglio e i manettari rosicano, la trattativa non c'era e loro minimizzano

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Si è illuminata la scena di un delitto. Ma il delitto non è quello che la Procura pretendeva di aver delineato. Il delitto è stato il processo. Per i danni che ha causato a persone innocenti, per la diffamazione insistita di persone e istituzioni, e soprattutto perché, sotto la maschera di procedure formalmente legali, si è consumato un tentativo di rovesciare l'ordine costituito. Diciamolo: un putsch togato. La Corte d'Assise d'Appello di Palermo ha infine placcato, con mossa decisa e chiara come il sole, questo pasticciaccio infame a pochi metri dalla meta. Deo gratias. Davanti a questa sentenza si sono manifestati diversi livelli di scontento. Individuarli è molto istruttivo. Prima però, anche se note a tutti, è il caso di ricordare, con una certa personale soddisfazione, le decisioni della Corte sicula. L'accusa, esponendo immediatamente le sue tesi con intonazioni definitive, ha conficcato un cuneo d'acciaio nel cuore dello Stato, identificandolo come complice di Cosa nostra. Con l'aria di fare un processo locale, con procedure buone per un furto di banane, ha impegnato polizia giudiziaria e forze investigative enormi. Un normale processo? Mezzi abnormi. Intercettazioni arrivate fin nelle stanze del Quirinale, con morti di crepacuore. In realtà abbiamo assistito per la durata di dieci anni, da quando cioè i locali pm formalizzarono le loro tesi, a una sorta di scommessa sulla pelle della democrazia. Ingroia, quindi Di Mat- g teo e poi tanti altri hanno so. stenuto che i carabinieri al servizio di vertici istituzionali hanno venduto l'Italia alla mafia, aiutandola a far stragi. Non uso il condizionale perché questo modo verbale non è mai stato usato, neppure nella formulazione delle ipotesi peggiori. Torquemada era un moderato e un cultore del dubbio, rispetto a costoro.

UNA STORIA SEMPLICE - I giudici hanno ribaltato l'assunto colpevolista, un kappaò senza resurrezione. Hanno stabilito che la trattativa c'è stata, ma non è stata affatto un reato. Forse, aspettiamo le motivazioni, doverosa. Ci piace qui citare un giurista con i fiocchi e i controfiocchi, Giovanni Fiandaca, che lo scrisse ben otto anni fa su Il Foglio, e cercò invano di strappare i predestinati alla dannazione, e perciò subito vilipesi, dalle mani ungulate di pm e loro appendici mediatiche. Fiandaca fu sommerso dal silenzio dei grandi (?) giornali e dalle contumelie dei mozzaorecchi e delle loro tricoteuses. Scrisse il giurista: «Gli intermediari non mafiosi della trattativa Stato-mafia agivano sorretti dalla prevalente intenzione di contribuire a bloccare futuri omicidi e stragi: un obiettivo, dunque, in sé lecito, addirittura istituzionalmente doveroso». Do-ve-ro-so. Si erano posti l'«obiettivo salvifico di porre argine alle violenze mafiose - e non già di supportare Cosa nostra nei suoi attacchi contro lo Stato». È così semplice, una storia semplice, intitolò Leonardo Sciascia un suo racconto. Ma certo. Gli ufficiali del Ros Mori, Subranni e De Donno dinanzi a chi spargeva morte si erano mossi per salvare gli ostaggi, cioè gli italiani. Invece i mafiosi Bagarella, Cinà, Brusca hanno trattato, loro sì, per attentare allo Stato. C'è una differenza o no tra i terroristi che tengono la pistola alla tempia di innocenti e chi cerca di mettere al sicuro la gente, prende tempo, appronta una scappatoia? Basta la buona fede, non c'è bisogno del quoziente intellettuale di Cartesio. Il processo era in sé stesso dunque, assai prima della sentenza, una trappola dettata dal pregiudizio politico e culturale contro chi lottava contro la mafia senza essere della parrocchia togata. In questo modo si è aperta la strada giudiziaria alla delegittimazione dello Stato, al sua parificazione morale a Cosa Nostra. Non c'è bisogno di avere le lampadine in testa come Archimede Pitagorico o Eta Beta per arrivarci. A questo punto per i sostenitori sperticati o coperti di questo colpo al cuore dello Stato si è posto il problema di salvare i soldatini Ingroia, Di Matteo ed epigoni. Sono state due le tecniche praticate per dribblare l'ostacolo di una sentenza che ghigliottina il Robespierre che la stava manovrando.

DUE TECNICHE - 1) C'è quella volgarotta di quanti la buttano sul ridere al loro funerale. Rovesciano la vacca e si sganasciano perché ha le tette. È il caso del Fatto Quotidiano, che nei giorni scorsi aveva lanciato con tono limaccioso un altolà alla Corte perché si guardasse bene dal dare torto alla procura. Davanti alla mala parata, Travaglio cambia tono e sceglie quello della barzelletta sfigata da seminarista in gita per provare a scansarsi. E sostiene a tutta pagina e maiuscolotto: «IMPAR CONDICIO. Trattare con la mafia si può, con lo Stato no». Capita la battuta? Grande satira, non è vero? Per Marco Travaglio lo Stato e la mafia sono la stessa cosa. Chi cercava di negoziare per liberare dei bambini in mano ai banditi è uguale ai killer. E se promette un salvacondotto, è complice. Ma va' là, l'insuccesso ti ha dato alla testolina. Non spiace qui notare che i natali del processo sulle trattative coincidono, ma guarda un po', con quelli del Fatto: dieci anni buttati via, affinità elettive. 2). C'è un altro modo per edulcorare il colpo, ovattarne l'enormità, impedire che abbia strascichi fuori di Palermo e della piccola vicenda di uomini assolti. Minimizzare. Il campione di questa dottrina dell'incipriare il bernoccolo, zuccherare il fiele è con ampio distacco Carlo Bonini su Repubblica. Inizia con il dire che qui non si è attraversato nessun Rubicone. Nessuna partita decisiva. Nessun contraccolpo a Roma. In fondo la sentenza non chiarisce un tubo, dice. I titoli sembrano il risultato di un corso accelerato di depistaggio, odi opacità omertosa, come usa scrivere lui quando è in forma: «La verità impossibile nella stagione delle ombre». Ancora: «La sentenza e la zona grigia». Nel testo abbondano aggettivi come «labirintico», crescendo irresistibili di avverbi come «psicologicamente e compiutamente», manca lapalissianamente. Insomma: siamo al porto delle nebbie. Il Corriere della Sera? Giovanni Bianconi una cosina la dice. E cioè che il processo, al di là della sentenza, è stato «un errore». Forse citava il capo della polizia di Napoleone, Joseph Fouché che a proposito dell'esecuzione senza prove del duca di Enghien disse: «È peggio di un crimine, è un errore». Sia quel che sia, non si può cercare di impiccare impunemente la brava gente e lo Stato con lei.

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