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Magistratura, i privilegi delle toghe non muoiono mai: ora scrivono anche le leggi per loro stessi

 Toghe

Pietro Senaldi
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Qualunque lavoratore dipendente italiano che ricevesse un incarico ministeriale ben retribuito di alto livello, che lo costringesse a dedicarsi quotidianamente al nuovo compito, dovrebbe andare in aspettativa e rinunciare al proprio stipendio. Se il privilegio toccasse a chi lavora in proprio, il calo delle entrate sarebbe immediata conseguenza del mancato impegno nella vecchia professione. Questo non capita ai magistrati. Come illustrato dal nostro Paolo Ferrari, le toghe in distaccamento cumulano il gettone ministeriale alla lauta busta paga che incassano come magistrati, e questo anche se non fanno neppure un'udienza e non emettono sentenza. Beati loro, certo; ma non è per invidia che contestiamo la pratica, bensì per le conseguenze nefaste, per la giustizia, il governo e i sudditi italiani, che la situazione comporta. Gli incarichi di questo tipo sono a chiamata e il commettente, naturalmente, è un politico. La circostanza crea un'interdipendenza tra magistrati e governanti che sbatte contro il principio di tripartizione del potere statale. Il distaccamento presso il ministero infatti, essendo un ottimo tonico per il reddito del beneficiato, è ambitissimo e il solo modo per ottenerlo da parte della casta in toga è mettersi in evidenza presso la classe politica.

 

 

 

In particolare, siccome, indipendentemente da chi vinca le elezioni, in Italia governa la sinistra, i nostri giudici cercano di andare d'accordo con il Partito Democratico, che bene o male è quello che ha sempre il mazzo in mano. L'effetto è che alle (parecchie) toghe che sono di sinistra per ideologia, si aggiungono quelle che lo diventano per interesse e voglia di far carriera. Non è un'eccezione che talvolta chi ha distrutto la carriera di un politico con accuse e inchieste poi crollate nei processi, sia stato misteriosamente ricompensato con lauti incarichi da qualche rivale del poveretto caduto in disgrazia benché innocente. Già, perché non solo i magistrati non pagano per i propri errori, ma talvolta risultano addirittura premiati per uno sbaglio forse non proprio dovuto a imperizia o errore. Siccome poi il lavoro dei togati al ministero consiste per lo più nello scrivere le leggi, giacché la nostra classe politica non è per la maggior parte all'altezza di farlo, ecco che il loro distaccamento lede pure per quest' altro aspetto il principio di tripartizione dei potere. Chi è chiamato a far applicare le norme infatti, le redige anche. Forse per questo, malgrado riforme di ogni tipo, in Italia non cambia mai nulla. I magistrati al governo scrivono leggi astruse e incomprensibili per poi, quando devono applicarle in tribunale, avere le mani libere nell'interpretarle a seconda della convenienza del momento o dell'opinione personale del singolo giudicante.

 

 

 

Con queste premesse, ben si capisce perché la categoria si agiti e voglia scioperare contro la nuova riforma della giustizia. Alla casta con il martelletto secca essere sottoposta a una valutazione di efficienza nello svolgere la professione. La pagella sul lavoro fatto introdotta dalla Guardasigilli non è gradita perché, oltre a condizionare le carriere, si riverbera sulla libertà di cooptazione - e di libero scambio, incarichi per servizi- che salda politica e magistratura. Come si farebbe, un domani, a distaccare al ministero una toga con un punteggio basso? Una scelta non corroborata da adeguata quotazione avrebbe il sapore di premio, o prezzo, anziché di necessità di ricorrere a competenza superiori. La meritocrazia è lo spauracchio delle toghe, che la spacciano all'opinione pubblica come una limitazione alla loro libertà giudicante garantita dalla Costituzione, mentre sarebbe viceversa una liberazione per tutti gli italiani dall'arbitrio interessato della parte politicizzata della magistratura. 

 

 

 

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