Lo Stato riconosca gli errori della giustizia

Marco Sorbara, ex assessore in Val d’Aosta, era innocente. Gli hanno distrutto la vita ma lui se l’è ripresa e ora parla di libertà ai ragazzi
di Gianluigi Paragonelunedì 9 giugno 2025
Lo Stato riconosca gli errori della giustizia
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Ha fatto 909 giorni di carcere da innocente e ha trasformato la sua rabbia di vittima di malagiustizia in forza, la forza di raccontare nelle scuole come si vive in una gabbia quattro passi per due, cioè le misure della cella dove fu sbattuto in isolamento con l’accusa di essere affiliato alla ‘Ndrangheta. Invece Marco Sorbara, ex assessore in Val d’Aosta, era innocente. Gli hanno distrutto la vita ma lui se l’è ripresa e ora parla di libertà ai ragazzi. Quella libertà che lo Stato ha deciso di dare, nel gioco della negoziazione con il Male, a Giovanni Brusca che invece mafioso lo era davvero.

Marco Sorbara è una delle tante vittime della malagiustizia, che è un termine che non significa nulla se non scendi in apnea a vederne i fondali scuri. Essere vittima di malagiustizia significa che un innocente diventa un mostro da sbattere in prima pagina; significa essere privati della libertà e poi, dentro il carcere, della dignità perché quel che accade nelle carceri non lo vogliamo sapere né vedere. Essere vittima di malagiustizia significa che ti riduci in bolletta per dimostrare che sei innocente. Essere vittima di malagiustizia significa non avere più un lavoro e quando lo cerchi escono prima gli articoli dite accusato; come quando cerchi di comprare casa o cerchi nuove relazioni. «Sì, ma qualcosa deve pur aver fatto se lo hanno messo dentro».

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Marco Sorbara, come tante vittime ingiuste, sta ancora aspettando il risarcimento e tutto quel che gli è dovuto. Marco si è liberato da solo, di una libertà senza rancore ma non per questo meno amara. Ha delle cicatrici enormi. Che racconta agli adolescenti. Gli ho chiesto cosa ne pensasse della liberazione di Brusca e della giustizia riparativa: «Se lo Stato ha avuto il coraggio di dare una nuova vita a Brusca, deve avere l’umiltà di riparare anche chi non ha un potere negoziale come quello di un ex capomafia». È il passaggio finale di una lettera che ha scritto, di cui riporto alcuni spunti. «Possiamo discutere se le norme vadano riviste, certo. La giustizia come dev’essere: punitiva o trasformativa? Statica o capace di evolversi? So di cosa parlo perché anch’io ho vissuto il carcere. Ma da innocente. Ho passato 909 giorni di ingiusta detenzione, in una cella di quattro passi per due, accusato ingiustamente. Anche io posso essere considerato di fatto una vittima, vittima di una falla del sistema giustizia che per un determinato arco temporale ha attraversato la vita distruggendola. Come oggi sono vittima dei pregiudizi, dei finti moralismi, delle finte amicizie».

«Se lo Stato ha deciso di rispettare l’impegno voluto da Falcone con una persona come Giovanni Brusca, a maggior ragione deve dare una possibilità – alle vittime, ai familiari, alla società – di uscire dall’odio e dalla vendetta, senza rinunciare al diritto di verità, memoria e rispetto. La storia italiana recente ci offre un esempio straordinario di coraggio e umanità: quello di Agnese Moro e dei familiari delle vittime del terrorismo, che hanno deciso di incontrare, ascoltare e avviare un percorso profondo di dialogo con alcuni degli ex appartenenti alle Brigate Rosse. Un gesto che non cancella il dolore. Dobbiamo aprire un confronto vero, autentico; chiedo di entrare in punta di piedi nelle ferite di chi ha perso un padre, una madre, un figlio, o semplicemente la serenità di vivere. Quel dolore non si cancella. Io lo so».

«Ci sono dolori che non si raccontano perché non trovano spazio nelle parole. La mia ingiusta detenzione è stata uno di questi. Un’esperienza che mi ha lacerato dentro, lasciandomi nudo davanti all’indifferenza delle istituzioni, tutte, nessuna esclusa. Quando avevo più bisogno di essere ascoltato, compreso, sostenuto, mi sono trovato solo. Totalmente solo. Ma proprio da quella solitudine, da quel dolore sordo e profondo, ho scelto di non spegnermi. Lo Stato però non può fare finta di niente».

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