C’è a Milano un ritorno di fiamma della stagione di Mani Pulite? Era dall’epoca in cui si destrutturò per via giudiziaria la politica regionale (da Roberto Formigoni a Mario Mantovani, da Roberto Maroni fino all’assalto -fallito- ad Attilio Fontana) che non si assisteva a una serie di indagini così ipermediaticamente degne degli anni eroici, come quelle svolte in questi ultimi mesi: dall’urbanistica al caporalato fino al caso Mediobanca.
Di fatto c’è stato un lungo periodo di saggia cautela della procura milanese, assai prudente per esempio nel gestire gli inevitabili incidenti procedurali (quelli che forse prevedeva Giuliano Pisapia, che magari non si ricandidò come sindaco di Milano proprio perché temeva qualche vendetta per il suo passato garantista) per quell’Expo milanese così rilevante per il rilancio della città.
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L’unico episodio un po’ glamour in questi ultimi anni era stato il processo all’Eni che avrebbe potuto danneggiare duramente una delle poche nostre grandi imprese nazionali, ma vide invece prevalere la verità grazie alla saggezza dei giudici impegnati nei vari processi e poi provocò anche qualche guaio giudiziario ad alcuni indagatori che - secondo due sentenze (di primo grado e di appello) - potrebbero avere combinato “presunti” (manca la sentenza definitiva della Cassazione) pasticci, a danno della difesa, nei loro atti processuali.
Tutto sommato sotto la Madonnina ha pesato per un certo periodo una riflessione, anche da parte di molti degli stessi magistrati protagonisti del manipulitismo, su quel che è avvenuto con le inchieste del 1992 e immediatamente successive. Si è più o meno raggiunta una consapevolezza dei guasti prodotti con inchieste nel merito spesso giustificabili ma iperpoliticizzate nel metodo, disgregando i grandi partiti nazionali, preparando una trentina d’anni di subalternità dell’Italia e della sua economia a sistemi di influenza straniera, allontanando dallo Stato (al contrario di quel che si auspicava) tanti cittadini come dimostrano anche le recenti astensioni elettorali.
Insomma è parso che si potesse creare un clima di serenità giudiziaria. E invece con qualche angoscia si avverte negli ultimi mesi un possibile ritorno al passato “eroico”. Che certe forme di lavoro quasi schiavistico siano inammissibili in una società avanzata come quella ambrosiana, è sacrosanto ma quello che, per esempio sul sito internet il Post, si definisce «il metodo Storari» perché il pm Paolo Storari «per la prima volta identifica come responsabili dei reati non solo le aziende che lavorano in appalto o subappalto, ma direttamente i marchi committenti, anche se non hanno formalmente responsabilità penali (perché non hanno, o sostengono di non avere, il controllo sull’attività delle aziende più piccole inserite nella loro filiera)», suscita perplessità.
Anche per l’affermata supplenza che il pubblico ministero rivendica rispetto a quello che sarebbe compito della politica e del sindacato. Così non poche riserve ha sollevato l’azione della pubblica accusa sull’urbanistica milanese: è evidente come a Milano non vi sia stata un’adeguata capacità di guida amministrativa dell’urbanistica da parte di un sindaco mediocre come Giuseppe Sala provocando scelte di rinnovamento edilizio (in sé peraltro indispensabili) eseguite con criteri approssimativi o proprio sbagliati. Ma come ha spiegato pure la Corte di Cassazione gli errori politici e il clima pasticciato non possono essere considerati penalmente rilevanti se non vi sono adeguate prove circostanziali di concreti reati.
Di questo clima un po’ da giustizieri più che da amministratori di giustizia pare di cogliere qualche segno anche nella recente inchiesta sui casi interconnessi Mps-Mediobanca-Generali. Innanzi tutto perché non si vede traccia di quella leale collaborazione tra istituzioni dello Stato che non giustifica nessuna impunità, ma che non prevede un pm onnisciente e onnipotente. Perché, prima di arrivare ai primi atti giudiziari, non si è interpellato il ministero dell’Economia, la Consob, Bankitalia? Nessuno deve essere sopra la legge, ma la Costituzione prevede dei procuratori della Repubblica non una Repubblica dei procuratori.
Riferendosi a magistrati spesso dotati di un’ottima preparazione giuridica e non di rado animati da spirito civico, è sbagliato arrivare a conclusioni affrettate evocando nostalgie di un passato quando i pm erano considerati eroi, o pensando all’apertura della campagna elettorale per il prossimo referendum sulla separazione della carriera, o a una prima tappa di quell’intervento della Provvidenza evocata da Francesco Saverio Garofani per far cadere il governo Meloni, o a soggetti giudiziari che si sentono parte di settori dell’establishment milanese e agiscono di conseguenza.
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La tentazione di interpretare ogni novità come frutto di un complotto spesso è errato: ogni avvenimento ha una sua dinamica che talvolta si giustifica in sé e per sé (nel caso specifico c’è anche la possibilità che singoli pm abbiano intravisto un reato e agito di conseguenza, magari con solo qualche errore di metodo). Comunque, però, secondo il criterio che sulla “moglie di Cesare” non si deve avere mai neanche un sospetto, è bene mobilitarsi con ancora più energia sul referendum per la separazione delle carriere (impossibile senza separare i Csm) che consolidando un sistema finalmente e integralmente da grande liberaldemocrazia occidentale sgombri appunto il terreno anche dai possibili sospetti.




