Gli scontri di piazza che si susseguono quasi ogni giorno, stanno facendo precipitare il Paese nel clima infuocato degli anni Settanta. Un vortice di violenza fuori controllo che non si limita più a colpire la parte avversa, ma che - come dimostrato con gli scontri tra sindacalisti - si sta trasformando anche in “fuoco amico”. Una situazione drammatica che va letta con gli occhi di chi, quella prima ondata di violenza senza senso l’ha vissuta sulla pelle. Chi meglio di Antonio Di Pietro, che oltre ai ruoli che lo hanno reso celebre - giudice di Mani Pulite e poi ministro della Repubblica -, in gioventù è stato anche commissario di Polizia che quelle manifestazioni le ha affrontate di persona.
Dottor Di Pietro, dire che in Italia tira una brutta aria è fare allarmismo o un qualche timore c’è?
«Il nostro Paese sta vivendo una situazione di reale emergenza e di pericolo pubblico. Basta guardarsi attorno per capirlo, con bande di ragazzi che sequestrano loro coetanei, che picchiano, che rapinano. Il tutto con un senso di onnipotenza, di poter fare quello che vogliono e come vogliano, quasi fossero degli intoccabili. Ecco questo tipo di atteggiamento sta incrementando la violenza e le prevaricazioni».
A dirla tutta questo senso di impunità è dato anche da una certa politica, che sembra giustificare atti di violenza come quelli che lei ha descritto, non trova?
«Io credo che la responsabilità politica e morale sia soprattutto di quelli che io chiamo cattivi maestri».
Chi sono?
«Sono i professori, i filosofi, i pensatori che sono collaterali alla politica, ma con il loro pensiero creano un clima per il quale il rispetto della legge è del tutto opzionale. Si tratta di veri e propri istigatori».
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Qualcuno lo chiamerà profeta di sventura, ma più probabilmente Antonio Di Pietro, da ex toga e uomo tutto ...Ci faccia un esempio.
«L’altra sera ero in tv e c’era uno di questi professori che distinguevano quando accaduto in piazza durante la manifestazione della Cgil e l’aggressione alla redazione de La Stampa. La prima, per lui, era da condannare, la seconda quasi quasi no. Come se aggredire un giornalista sia meno grave che farlo con un sindacalista».
Nel novero dei cattivi maestri lei inserisce anche una figura discussa come quella di Francesca Albanese?
«Certamente. Dire che assaltare una redazione deve “essere da monito” o dire al sindaco di Reggio Emilia “ti perdono” per aver espresso un’opinione è pazzesco. Ma io mi chiedo: ma chi si crede di essere questa qui per ergersi a censore?».
Dottor Di Pietro, in molti evocano gli anni Settanta. Lei che li ha vissuti è d’accordo?
«Vedo molte similitudini. Negare che la situazione sia così grave sarebbe sbagliato».
Ci racconta quegli anni?
«Io ero un ragazzo proprio come quelli che manifestavano. La sera li vedevo in discoteca, eravamo tutti lì a divertirci. Poi il giorno dopo mi sputavano addosso e mi tiravano le pietre. Questo perché io ero lì con la fascia tricolore di commissario di polizia e facevo il mio mestiere».
Che era?
«Che era quello di parlare con questi ragazzi per provare ad evitare gesti di violenza e poi difendere i commercianti e le persone che sarebbero state attaccate dai manifestanti. Io non capivo il perché di quella violenza e perché loro si sentivano in diritto di picchiare, insultare, distruggere. Quelle sensazioni me le ricordo come fossero ades so».
Oggi di fronte alla violenza di piazza vede delle differenze rispetto ad allora?
«No. Anche allora la violenza più dura è iniziata con manifestazioni uguali a quelle di oggi. Con cattivi maestri che giustificavano la violenza, proprio come accade oggi. Non è vero che la situazione attuale è diversa. Io ci vedo molte similitudini».
Le forze dell’ordine spesso sono bloccate nella loro reazione. Lei come si comportava?
«Cercavamo, come accade oggi, di non reagire, ma poi è chiaro che ci sono situazione nelle quali ho reagito e così potrà succedere anche nel presente». Come vive questa situazione? «Allora come oggi io stavo e sto dalla parte dei ragazzi delle forze dell’ordine».
Avanti di questo passo dove si andrà a finire?
«Al momento non è ancora successo, ma se questa tensione cresce, non mi sorprenderei se ci scappasse il morto. E la colpa sarebbe tutta dei cattivi maestri che, lo ripeto, sono degli istigatori».
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Per due sere consecutive, domenica e lunedì, circa un centinaio di attivisti No Tav incappucciati hanno attaccato...Dall’alto della sua molteplice esperienza, cosa dovrebbe fare lo Stato per riportare le cose su un livello di tensione più controllabile?
«Bisogna riaffermare lo stato di diritto e la certezza della pena. Oggi molti di questi ragazzi si vantano di essere stati in galera per 24 ore. È come una medaglia da portare al petto. La vivono come una sorta di impunità. Per farlo, però, serve un cambio di mentalità».
In che senso?
«Mi ricordo quando arrivai al Nord, in provincia di Como. Ogni mattino vedevo le auto in autostrada sfrecciare a 140 o 150 chilometri all’ora fregandosene del limite. Poi appena arrivavano a Chiasso, d’improvviso rallentavano e seguivano i divieti. E sa perché? Perché in Italia non succedeva nulla, ma in Svizzera gli ritiravano la patente. Ecco quello che intendo con riaffermare lo stato di diritto: se sbagli paghi, fino in fondo».
Quindi ci dia una soluzione concreta.
«Bisogna costruire più carceri. Oggi nel nostro Paese avremmo bisogno di 70/80mila celle, ma ne abbiamo appena 45mila. Costruiamone di nuove, mettiamo in galera quelli che se lo meritano e facciamoceli stare fino a quando non scontano la pena. Secondo me sarebbe un buon investimento».




