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Selvaggia e il calvario divorzio: "Liti, meschinità e ricatti"

La Lucarelli e la favola delle separazioni collaborative: "Sono sempre una guerra con i figli che finiscono nel frullatore"

Giulio Bucchi
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  Succede che in un sabato qualunque mi imbatto in un articolo del Corriere della sera intitolato: «C'è un divorzio che non fa litigare. Unico requisito: l'onestà». E già penso che il titolo suona più o meno come «C'è un tiramisù che non ti fa ingrassare. Unico requisito: farlo mangiare al vicino di tavola».  L'onestà. Una roba che è più facile trovare in un tesoriere di partito che in un ex coniuge. Ma non mi scoraggio e procedo fiduciosa nella lettura. La radiosa ipotesi  è quella di arrivare a «un divorzio etico, rispettoso, civile» evitando di rinchiudere e imbavagliare l'ex suocera in un garage di Quartoggiaro finché l'ex non lascia la casa coniugale e rivolgendosi invece a questa ragionevole, avveduta, assennata categoria di avvocati denominata «avvocati collaborativi». Loro, i supereroi della bomboniera implosa, gli Avangers degli scazzi tra ex coniugi, cercherebbero un accordo tra le parti senza finire in tribunale e avvalendosi del prezioso ausilio di fiscalisti, psicologi infantili e commercialisti. Che sarà pure un iter pacifico ma ad occhio, messa così, è previsto un minor numero di collaboratori al Cremlino per risolvere i conflitti russo-ceceni che per dirimere una causa matrimoniale. Allora. Le intenzioni sono apprezzabili e io so che esiste un mondo popolato da persone civili e dotate di buonsenso che si mollano con una stretta di mano e un briciolo di sana e mite commozione, ma conosco un maggior numero di coppie che anziché lasciarsi con la guancia rigata dalle lacrime, si lasciano col Q5 rigato dalle chiavi dell'ex moglie. Chi c'è passato lo sa e chi non c'è ancora passato è bene che lo sappia.  Separarsi da un ex coniuge è facile. È separarsi da livori, rancori, egoismi, sete di vendetta, case, autovetture e gioielli di famiglia, che è difficile. E siccome la separazione è la cartina di tornasole della meschinità umana, io agli avvocati collaborativi credo almeno quanto agli ex coniugi tipicamente collaborativi.  Ovvero quelli che si lasciano e cominciano la danza delle recriminazioni: non c'eri mai, c'eri troppo, mi soffocavi, mi lasciavi troppo sola, non eri più quello che ho conosciuto, eri rimasto quello di 20 anni fa, mai un weekend al mare, mai un weekend tranquillo in città, mai una serata con gli amici, sempre i tuoi amici tra i piedi e così via. Accuse banali generalmente accompagnate da rivelazioni sconvolgenti e inattese che hanno il crudele scopo di frastornare la controparte. Ti lasci e improvvisamente: «E allora sappi che quando facevamo sesso pensavo ai solleciti di pagamento Equitalia». «Sappi che il collier che mi hai regalato a Natale era brutto come la morte, l'ho venduto al Compro oro qui all'angolo e con i soldi mi ci sono rifatta le tette». «E allora sappi che tua madre è una stronza e che tua sorella in paese è più chiacchierata della farfalla di Belen!». «E allora sappi che la montagna mi ha sempre fatto schifo e ci venivo solo perché il cameriere del bar tirolese, quando diceva “Per la signora omaggio della casa  a fine pasto” non intendeva la grappa». E così via. Dopo mesi così, si comincia finalmente a ragionare e la controparte femminile, arriva solitamente alla collaborativa conclusione che sì, le responsabilità della fine del matrimonio sono sempre delle due parti:  quella dell'ex marito e quella dell'ex suocera. Credo agli ex coniugi collaborativi che quando si tratta di dividere case, regali e suppellettili, pur di non mollare l'osso all'altro, manifestano attaccamento morboso nei confronti di qualsiasi oggetto. Ex mariti che minacciano di lanciarsi dalla tromba delle scale se l'ex moglie si porta via il set di centrini all'uncinetto da sottovaso ovale vinti alla pesca della parrocchia nel Natale del ‘98. Frullatori divisi come fossero tranci di pizza: a te il seghetto tritaverdure, a me l'elica per la centrifuga. Risse feroci a colpi di  telecomando con intervento del vicinato per stabilire la proprietà del decoder Sky. Credo a ex coniugi collaborativi quali mariti col Porsche Cayenne che propongono all'ex moglie assegni di mantenimento con i quali sarebbe complicato tirar su un bonsai ficus ginseng in buona salute, figuriamoci un bambino di dieci anni. E ho visto ex mogli collaborative inserire nella lista dei beni di prima necessità casa, scuola, attività sportiva e la New Birkin azzurro pastello. Ho visto seri avvocati collaborativi costretti a inviarsi lettere astiose, piene di passaggi tecnici e barocchi, per dire che il loro assistito minaccia l'intervento delle forze dell'ordine se l'altro non gli restituisce il portacenere a forma di foglia d'erba tunisina comprato durante il viaggio di nozze ad Amsterdam. Ho visto discutere in modo collaborativo di figli, affidamento e giorni di frequentazione (Natale con me - Pasqua con te - Ognissanti con i nonni ma a anni alternati e nei bisestili si lanciano i dadi)  come se l'argomento di discussione non fossero bambini ma multiproprietà alle Canarie. Insomma, io ci credo agli avvocati collaborativi, come no. E credo fermamente nel divorzio collaborativo. Il  mio, per dire, è talmente collaborativo che sta durando più del matrimonio. E non è cosa da poco: posso dire che la mia separazione, almeno, ha funzionato. di Selvaggia Lucarelli      

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