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Peggio dei giovani fannullonici sono solo i loro genitori

Il ragazzo che dice alla Fornero di non voler lavorare la notte è il simbolo di una generazione allevata a credere che la società sia un immenso bancomat

Eliana Giusto
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  Me la ricordo bene quella fotografia, stava sui quotidiani qualche giorno fa. Università di Torino. Visita e conferenza di Elsa Fornero, ministro del Welfare. Incontro con un giovanotto che se ne sta stravaccato su una poltroncina e non si alza come dovrebbe davanti a una signora. Colloquio tra i due. Il giovanotto racconta al ministro che un impiego l'avrebbe trovato, ma non gli va di accettarlo perché lui non vuole lavorare di notte.  La faccenda della «notte no» ha suscitato un piccolo scandalo sulle gazzette. Mi è rimasta impressa l'irritazione di Mario Calabresi, il direttore della Stampa. È un giornalista di valore, ma un po' troppo ottimista a proposito dei giovani. Io invece non mi sono irritato. La risposta del nostro scansafatiche mi è sembrata persino ovvia, considerando il soggetto.  Un fusto sui vent'anni o poco più, convinto che la sera e la notte debbano essere riservate soltanto al piacere. Vagare da una movida all'altra, taroccare ragazze, fare cortile con gli amici, rincasare all'alba e regalarsi una sacrosanta dormita.  Sapete chi mi ricorda quel fannullone? Uno dei tanti, maschi e femmine, che sapendo in modo vago che faccio da un'eternità il giornalista mi chiedono in quale  modo potrebbero entrare in una testata. Di solito rispondo che anche la carta stampata è in crisi. E gli editori non soltanto si guardano bene dell'assumere apprendisti, semmai cercano di liberarsi dei redattori che hanno in casa. Ma da oggi in poi la mia replica sarà diversa. Dirò: volete avviarvi alla nobile professione del giornalismo? Allora dovete essere disposti a ruscare di notte!  Un'antica battuta sosteneva: fare il giornalista è faticoso, ma è sempre meglio che lavorare. Era una bugia, dal momento che in mezzo secolo di mestiere ho sempre lavorato molto e, soprattutto, ho visto colleghi darci dentro come pazzi. Anche quando calava il buio. Stare nella macchina di un giornale, in un desk come si dice oggi, ha sempre comportato lavorare di notte.  Ho fatto così anch'io. Se ricordo i quattordici anni da vice direttore di Repubblica, vedo me stesso e l'altro vice, il senior Gianni Rocca, uscire dalla redazione di piazza Indipendenza quando stava per scoccare la mezzanotte. E non sempre finiva lì. Il direttore, l'onnipresente Barbapapà Scalfari, aspettava a casa la prima edizione del giornale. Se vi scopriva qualche cavolata, telefonava a Gianni e obbligava lui e me a mobilitarci di nuovo.  Livello di guardia - Tuttavia, la risposta del giovanotto fancazzista mi è stata utile. Nel senso che ha fatto salire oltre il livello di guardia il mio fastidio per le litanie sul futuro dei giovani. Confesso di non poterne più. La storia del futuro che manca rimbomba tutti i giorni da tutti i media. È un mantra accompagnato da bollettini  di guerra sulla disoccupazione di ragazzi e ragazze. Orrenda nel Mezzogiorno e pesante nell'Italia del nord. Bollettini mai affiancati da un avviso ai lettori o agli ascoltatori.  L'avviso dovrebbe precisare: attenti che molti di questi ragazzi sono disoccupati perché vogliono esserlo. Nel senso che aspirano a posti che nessuno gli offrirà mai e rifiutano impieghi che invece sarebbero pronti ad accoglierli. Perché questo avviso manca sempre? Perché scatenerebbe l'ira di un sacco di gente. Genitori, insegnanti, sindacalisti, politici di terza o quarta fila, tipi sinistri che sperano di lucrare sulle proteste per questa società matrigna con le giovani leve.  Volete sapere come replicherebbe il sottoscritto? Prima di tutto direi che i genitori di figli diventati maggiorenni andrebbero aboliti. Sono un pericolo pubblico. Hanno allevato una generazione di disadattati, incapaci di combattere per se stessi. Convinti che tutto gli sia dovuto e la società sia un immenso bancomat in grado di sfornare impieghi lucrosi per chi è al di sotto dei trent'anni.  Molti padri e molte madri dovrebbero essere interdetti. Hanno cresciuto i loro ragazzi senza severità e non osando castigarli quando lo meritavano. Li hanno sempre finanziati e seguiteranno a farlo per tutta la vita. Li hanno lasciati arrivare all'università, nella convinzione che una laurea, per astrusa che fosse, gli avrebbe garantito un posto a tempo indeterminato e ben retribuito.  Dal momento che ho toccato il tasto dell'istruzione superiore, voglio aggiungere che anche su questo campo si dovrebbero tagliare molte piante malate. Quando mi capita di interrogare degli studenti scopro che esistono sedi universitarie mai sentite nominare. Con una pletora di corsi di laurea davvero strani. Tutti creati allo scopo di offrire uno stipendio a docenti arruolati soltanto per far sembrare grandi anche i piccoli atenei.  Anch'io ho frequentato l'università. E mi sono pure laureato con il massimo dei voti e la menzione della dignità di stampa per la mia tesi. Ma negli anni Cinquanta l'università era molto selettiva. Non soltanto in base al censo, come le sinistre di oggi proclamano. Mio padre era un operaio del telegrafo, teneva in tasca un taccuino dove segnava gli esami che davo e il voto ricevuto. Però sapeva che a occuparsi di me sarebbero stati i docenti. Prof selettivi al massimo. Disposti a stangarti con piacere sadico.  Nel pappa e ciccia di oggi, si è persa ogni nozione della realtà. La società italiana non ha posto per tutti i laureati. Ne ha molti per giovani che non hanno scaldato i banchi degli atenei, ma hanno imparato uno dei mestieri capaci di garantirgli un lavoro e uno stipendio.  Fa' il badante - Caro ragazzo e ragazza, ti sei laureato in lettere, in sociologia, in scienza della comunicazione, in archeologia, in astrofisica? Errore, dovevi addestrarti a fare l'infermiere, il paramedico, il fisioterapista, il badante... Alla parola «badante», un brivido di orrore scuote la ragazza o il ragazzo: perché proprio il badante? Perché la società italiana invecchia, vive a lungo e ha bisogno di non ammalarsi. Mentre cresce il numero di anziani che debbono essere assistiti in casa.  E perché l'infermiere? Perché mancano. Oggi ci arrivano da centoquaranta Paesi stranieri. Quando sono finito in ospedale, mi hanno curato immigrati che venivano dalla Polonia, dalla Romania, dall'Ucraina, persino dall'India e dall'Africa nera. E come loro sono arrivati da noi massaggiatori, addetti alla riabilitazione, governanti di case.  A questo punto dovrei passare a mestieri che hanno dato da vivere ai nostri genitori. Il falegname, il fabbro, il muratore, il piastrellista, l'elettricista, l'idraulico, l'agricoltore, il pittore, come adesso viene chiamato l'imbianchino. Anche il calzolaio è tornato a essere uno specialista richiesto. Lo stesso vale per il sarto che rimette in sesto abiti da non buttare nel guardaroba dei cani. Mi rendo conto di aver elencato lavori che si credeva superati. Ci eravamo illusi che la società del benessere fosse in grado di durare in eterno. Era un sogno e nient'altro. Le nazioni occidentali si stanno impoverendo. Dappertutto ci spiegano che la crisi attuale durerà parecchi anni. Vivere senza rinunciare a nulla diventerà sempre più impossibile.    Allo scansafatiche che non vuole lavorare di notte, darei un consiglio. Prova a sgobbare anche dopo le otto di sera. E augurati che le strade, le case, gli uffici e le fabbriche abbiano energia elettrica sufficiente a non farti piombare in un buio dove può accadere il peggio del peggio. di Giampaolo Pansa  

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