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Prandelli finge di aver vinto: non si scusa e fa il trombone

Il ct, tornato dopo lo 0-4 con la Spagna nella finale degli Europei, pontifica: "Noi siamo il cambiamento, il Paese è vecchio"

Giulio Bucchi
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  Messaggio al commissario tecnico della nazionale di calcio, Cesare Prandelli:  all'indomani di uno 0-4 non si possono dare lezioni. Quella subita dai suoi azzurri è la più umiliante disfatta mai registrata nella storia delle finali degli Europei e dei Mondiali e senso del pudore imporrebbe di scendere dal piedistallo prima di commentarla. Così non è andata però ieri a Cracovia. Rinfrancato dagli applausi con cui i giornalisti lo hanno accolto, Cesare ha gonfiato il petto e dato fiato al trombone: «Grazie, avete capito il nostro sforzo. Sono orgoglioso. In un Paese vecchio come l'Italia, noi abbiamo avuto la forza di cambiare e di portare avanti le nostre idee senza farci condizionare dal risultato». Eh no, questo è troppo. Intendiamoci, nessuno vuol criticare l'opera del ct: è arrivato alla finale contro ogni previsione e gli intenditori giurano che ha fatto un eccellente lavoro e pertanto merita di restare sulla panchina azzurra.  Però non è un eroe; non è ancora Pozzo, Bearzot, Lippi e neppure Valcareggi, che l'Europeo riuscì a vincerlo. Prandelli ha giocato due partite entusiasmanti contro l'Inghilterra (senza però fare neanche un gol e spuntandola a quella che vien detta «la lotteria dei rigori») e soprattutto la Germania, ma la figura di domenica sera è stata barbina e i toni del giorno dopo devono tenerne conto. Forse Cracovia è troppo lontana per avvertirlo, ma gli italiani si sentono più umiliati che «orgogliosi» di com'è andata con la Spagna. Non dico chiedere scusa; sarebbe, per usare un'espressione dello stesso Prandelli, «vecchio», eccessiva cortesia, ma almeno non parlare come se si fosse vinto, questo si poteva fare.  Anche sull'evocato «cambiamento» ci sarebbe poi da ridire. E non solo perché prima di elogiare i cambi, bisognerebbe almeno averne azzeccato uno sul campo, altrimenti si rischia il ridicolo. Ma anche perché se il cambiamento è giocare senza badare al risultato ma solo alla coerenza delle proprie idee, allora - e solo per questo - vien da chiedersi se in vista del Mondiale brasiliano del 2014 non sia il caso di ringraziare Cesare, rendergli l'onore delle armi e cambiare subito cavallo. O forse no: basta non prender troppo sul serio quelle parole. O meglio, prenderle per quel che sono: l'autodifesa di un onesto lavoratore di talento portato su dalle sue molte qualità e da un pizzico di fortuna e schiantatosi rovinosamente contro qualcosa di più grande di lui, un avversario e un evento che l'hanno travolto e non gli hanno fatto capire più nulla. Da qui, il «vecchio» vizio italico di cercare di trasformare una sconfitta in una vittoria e di giustificare la debacle con la moralità delle idee. Uno spettacolo più da politici che da sportivi, anche quando Prandelli scarica le sue responsabilità sui giocatori e afferma: «Dovevo cambiare formazione ma avrei mancato di rispetto a chi mi aveva portato fin lì»;  come a dire «avrei saputo cosa fare ma son troppo gentiluomo...». Ma più che da gentiluomo sembrano parole da marpione navigato, che alla vigilia con il vento in poppa detta le condizioni e minaccia: «Non so se resto» ma quando il sogno è finito raccoglie i cocci e scivola sulla palta come nulla fosse: «Fatemi lavorare, ho rivoluzionato il calcio italiano». Un'incoerenza, un gioco di parole, una finzione, come quella della Nazionale etica che ci ha venduto per due anni ma che sul campo schierava uno scommettitore  in porta, un indagato in difesa e due svitati in attacco che prima di arrivare a Varsavia ne hanno combinate di ogni. Poco male, non è certo per questo che Prandelli è da cacciare; a patto che da domani smetta di pontificare e di voler rieducare l'Italia attraverso il calcio e inizi a inseguire il risultato almeno quanto le sue idee. di Pietro Senaldi  

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