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Il Papa chiede la luna: amare i vicini di casa

Papa Francesco

Il Pontefice in un tweet esorta i fedeli a non ignorare i dirimpettai: "Non è un vivere da cristiani"

Matteo Legnani
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Dall'aprire i conventi chiusi per accogliere i rifugiati, all'aprire le porte di casa per andare incontro ai vicini.  È il nuovo messaggio di papa Francesco che, in un tweet, ieri ha esortato i fedeli a non ignorare i dirimpettai. «A volte», scrive Bergoglio, «si può vivere senza conoscere i vicini di casa: questo non è vivere da cristiani». Le parole del Pontefice svelano l'altra faccia dell'indifferenza, che non è solo global (nell'omelia a Lampedusa il Papa aveva parlato di «globalizzazione dell'indifferenza») ma è anche local, riguardando chi abita al nostro fianco o di fronte alle nostre case. In questo senso, il tweet di Bergoglio si inserisce pienamente nello spirito evangelico, che invita ad amare «il prossimo tuo come te stesso».  E per «prossimo» si intende appunto il vicino, chi vive a pochi metri da noi, condividendo il nostro stesso tempo e spazio. «Prossimo», dunque, non è solo il venturo, colui che verrà dopo di noi, ossia i posteri, le future generazioni, verso cui siamo comunque chiamati - secondo il Pontefice - ad assumerci un senso di responsabilità. Ma per amare il «prossimo» -  è questo il cuore dell'argomentazione di Francesco - dobbiamo prima conoscerlo. Il che non significa, banalmente, che il sapere sia viatico all'amare.  Ma che è possibile amare solo un Tu con il quale ci relazioniamo, un Tu che si fa persona, voce e volto, e non un Tu generico, un destinatario ignoto e remoto, se non addirittura collettivo, come capita a chi dice di amare l'umanità. No, prima di amare il popolo di un altro continente, prima di amare i nostri pronipoti, occorre amare i nostri vicini. È per questo che il monito del Papa incide fortemente nella nostra quotidianità. I condominii diventano spesso luoghi dove si alimentano odio e dissapori, dove la convivenza si fa difficile, e si fatica a costruire comunità a vantaggio dell'isolamento. I nostri palazzoni enormi non sono solo occasioni per alimentare risse tra inquilini che non si sopportano, ma talvolta sono contesto e pretesto per ignorarsi e non avere cura dell'altro.  «Non so neppure chi mi è venuto ad abitare di fronte», capita di sentire di frequente nelle nostre conversazioni. E così l'edificazione dell'habitat, che è la base su cui si fonda l'etica - secondo il filosofo Martin Heidegger -, viene a mancare di una componente essenziale: la condivisione con chi abita nel mio stesso luogo. Traspare qui, evidente, il principio dell'accoglienza che ha ispirato finora molti discorsi di papa Francesco. Si pensi al messaggio pronunciato in occasione della prima udienza generale, quando parlò dell'urgenza di «aprire a tutti le porte di Dio», oppure al messaggio rivolto ai più giovani: «Dovete aprire le porte verso un mondo nuovo»; senza considerare l'appello esplicito pronunciato da Lampedusa, sempre tramite Twitter: «Preghiamo per avere un cuore che abbracci gli immigrati», o alla più recente esortazione a «riaprire» i conventi chiusi per affidarli alla «carne di Cristo, i rifugiati».  In Francesco ritorna costantemente l'immagine dell'apertura delle porte, dell'ospitalità, lo sprone a essere solidali e non solitari, nella logica che ispirò il proclama di Giovanni Paolo II: «Aprite, spalancate le porte a Cristo». Questo comporta una rivoluzione nella concezione stessa della Casa, che non è più luogo intimo, spazio privato, precluso agli altri, ma confine aperto, attraverso cui bisogna accogliere e da cui bisogna uscire, bussando, andando a trovare il vicino. «Bussate e vi sarà aperto», dice il Vangelo. Allo stesso tempo, però, le parole di Francesco, nella condanna dell'indifferenza, invitano a riconoscere il suo esatto opposto: la differenza. Accogliere o andare incontro all'altro significa ammettere che l'altro ci è diverso, proprio in quanto «prossimo». E che la sua differenza contribuisce a costruire la nostra identità. Niente esortazioni all'omologazione o al «siamo tutti uguali», dunque, (che siano gli immigrati o i nostri dirimpettai), ma la constatazione che siamo differenti, e per questo vicini tenuti a conoscersi. di Gianluca Veneziani

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