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Coronavirus, i cinesi fanno affari in Italia: la pandemia è un business (ma solo per loro)

Antonio Rapisarda
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Che dalla Cina, nonostante la retorica filo-Pechino di Luigi Di Maio il quale - in piena tempesta pandemica di marzo - esultava all'annuncio dei carichi di mascherine e respiratori giunti dall'Estremo oriente, non arrivasse in realtà un bel niente "gratis" si è capito subito: è tutto a pagamento. È notizia recentissima, invece, il "conto" che è stato gentilmente pagato dall'Italia alle imprese cinesi per supplire al grave deficit di produzione nazionale di dispositivi minimi di protezione, frutto anche - come emerge in queste settimane - dello scandaloso aggiornamento mancato del "piano pandemico".

Stranieri in cima - La cifra alla cassa è monstre: dei quasi cinque miliardi di euro (4,7 al 17 novembre scorso) stanziati per bandi aggiudicati con l'obiettivo di affrontare l'emergenza Covid, ben un miliardo e settecento milioni è stato assegnato a imprese non italiane. Ossia il 36,2% del totale. E di questi importi oltre il 90% sono finiti nelle tasche degli imprenditori cinesi. Tutto ciò è avvenuto con l'introduzione dello stato di emergenza (datata 31 gennaio scorso): quindi in deroga alle normali procedure di approvvigionamento (senza gara di appalto) e con l'indicazione di Domenico Arcuri come super-commissario con il compito, tra i numerosi, di provvedere «ai maggiori contratti pubblici». Lo spiega così, in un dossier assai accurato, il centro studi Openpolis che ha predisposto un osservatorio ad hoc con il quale è possibile calcolare il bottino sostanzioso scucito dal governo giallo-fucsia per fornire in patria mascherine, camici e materiale ospedalieri. Se è vero che questi acquisti si sono resi necessari soprattutto nella prima fase di emergenza e che in seguito il sistema di produzione italiano «si è adeguato alle esigenze costrette dalla pandemia», in modo tale che il rifornimento di risorse «si è riequilibrato, fino a sbilanciarsi nettamente sugli acquisti presso aziende operanti in Italia», restano i cinesi a far la parte del "dragone": a guadagnarci di più e di tutti in ogni sensi. Vediamo perché. Alle imprese di Pechino sono già andati ben 1,57 miliardi di euro: pari, da soli, al 91,7% del totale vinto da aziende non italiane. Le distanze con gli altri Paesi sono siderali: al secondo posto troviamo la Corea del Sud, con 29 milioni, seguiti dagli Stati Uniti d'America (28,8) e Hong Kong (25,1). Solo in quinta posizione il primo partner europeo, la Germania, le cui aziende si sono aggiudicate 25 milioni di euro. Non solo. I cinesi "vincono" pure la gara dei lotti più corposi: le loro imprese, infatti, presentano un valore medio vinto per lotto di 54,3 milioni di euro. Un valore medio cinquanta volte più alto di quelle italiane, che si aggira invece su 1,08 milioni di euro.

Piatto ricco - E sempre "made in China" sono anche i tre lotti «con gli importi più alti finora banditi»: relativi alla fornitura di circa 671 milioni di mascherine vendute da Luokai Trade (Yongjia) Co. Ltd e Wenzhou Light Industrial Products Arts & Crafts Import Export Co. Ltd. Il costo? Entrambe le società hanno intascato «circa 974 milioni di euro». Insomma, con l'Italia in preda al "virus cinese" proprio da quelle parti hanno fatto affari d'oro. Vicenda che non è sfuggita per nulla a Giorgia Meloni. «Il Governo Conte ha assegnato un terzo dei bandi per gestire l'emergenza ad aziende cinesi? Numeri inquietanti che certificano l'assoluta dipendenza dell'esecutivo pentapiddino dal regime di Pechino», ha attaccato la leader di Fratelli d'Italia. Bocciato senza appello anche il ruolo del super-commissario. «Le enormi cifre gestite da Arcuri dovevano essere messe a disposizione delle aziende italiane, sostenendo gli investimenti per la riconversione e per la produzione in casa di tutto ciò che serviva a gestire l'emergenza». Per Meloni, insomma, aver scelto di affidarsi prima di tutto ai cinesi è la riprova «della peggiore classe politica della storia repubblicana: incapace, priva di visione» e di un «governo totalmente asservito agli interessi stranieri». 

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