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Roberto Napoletano, "così il Meridione sprecherà il Pnrr: sindaci incapaci e succubi dei governatori"

Pietro Senaldi
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«Quello dello sviluppo del Mezzogiorno ormai non è più un problema di finanziamenti, ma di capitale umano, organizzazione, capacità di fare progetti».

Cambio di spartito, dalla lamentela all'autoaccusa?

«La mia battaglia giornalistica per i trasferimenti di risorse al Sud non è rubricabile alla voce lamentela. Al contrario, è il frutto di un'inchiesta rigorosa che ha documentato un dato incontestabile: grazie al federalismo regionale la spesa pubblica pro capite in sanità, scuola, trasporti è stata a lungo sbilanciata a svantaggio dei cittadini meridionali. Però adesso la solfa è cambiata, non ci sono più alibi: al Sud con il Piano nazionale di Ripresa e di Resilienza è stata data un'occasione, ultima e irripetibile, per rialzarsi».

Perché è arrabbiato, allora?

«Perché vedo che si rischia di buttarla via, che si sono passati due anni con le mani in mano, che molti sindaci invece di chiamare i progettisti vanno dai capi bastone regionali». Chi parla è un uomo che al Mezzogiorno ha dedicato gli ultimi tre anni di lavoro. Roberto Napoletano è il direttore del Quotidiano del Sud, l'ALTRAVOCE dell'Italia, vetrina sul mondo visto con gli occhi del Meridione, con grandi firme di politica ed economia. «Provo rabbia» racconta. «Con il governo Draghi, perla prima volta una legge di bilancio ha inserito i livelli essenziali delle prestazioni sociali, che vuol dire riconoscere diritti di cittadinanza fino a oggi negati per gli asili nido e l'assistenza agli anziani alla comunità meridionale. Ma la mia paura, anzi la mia sensazione, è che la classe dirigente meridionale non riesca a mettere le cose a terra. Aspetta che altri lo facciano per loro». Volontà o incapacità? «Le due cose insieme. C'è un problema di carenza tecnica di risorse professionali, soprattutto nei piccoli Comuni, ma anche di istinto a chiedere aiuto e soldi, senza attrezzarsi arruolando risorse tecniche e studiando i bandi». «Tutti i soldi del Piano di Rinascita e Resilienza vanno al Sud» si lamentava il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, con il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, in un video rubato che ha fatto il giro d'Italia. Conti alla mano, non aveva tutti i torti. Il primo obiettivo dichiarato del Pnrr è ridurre la disparita territoriale, quindi quella di genere e di età. Per questo il Sud, con meno di un terzo degli abitanti, si prende oltre il 40% dei fondi europei, 82 miliardi su 200. «C'è una precisa scelta del governo Draghi - spiega Napoletano, - che punta a fare del Sud il secondo motore della ripresa italiana, ma troppi amministratori meridionali non si pongono neppure il problema di come usare questi soldi. Per un sindaco di Napoli, Gaetano Manfredi, che farà benissimo e restituirà all'Italia la sua terza capitale, ce ne sono troppi che si appoggiano alle Regioni e continuano a procedere per circuiti clientelari senza prendere decisioni autonome, quando invece potrebbero accedere direttamente ai soldi del Pnrr. C'è un immobilismo da stroncare sul nascere, perché così il sogno della rinascita del Sud muore».

 

 

 

Faccia qualche esempio...

«Mentre le Regioni del Nord hanno presentato più progetti di quelli coperti economicamente dal Pnrr, sugli asili nido i Comuni della Sicilia si sono fermati solo a 71 milioni dei 300 disponibili. Quelli campani a 119 su 328, e anche la Calabria è sotto il 50%. Esiste il rischio concreto che si spendano i soldi destinati ai grandi investimenti, come l'Alta Velocità o la Banda Larga, ma la maggior parte degli stanziamenti dedicati allo sviluppo dei Comuni, dall'edilizia scolastica agli asili nido, dalle palestre alla sanità, rimanga inutilizzata. Il Sud deve darsi una mossa, perché questo treno non ripasserà».

Contro chi punta l'indice?

«Le colpe della politica sono gigantesche, soprattutto quelle dei presidenti delle Regioni, che ormai sono sceriffi che giocano a fare i capi di Stato: pretendono che tutto passi attraverso di loro, distorcono il meccanismo virtuoso e i sindaci ne sono succubi o vassalli. Faccio un esempio: quando il ministro Brunetta fece un concorso per reclutare il personale tecnico sui territori, necessario anche a far partire il Pnrr, istituì una prova scritta meritocratica, ma ci fu una levata di scudi della Regione Campania perché un tale test avrebbe impedito ai raccomandati di avere il posto garantito. Il governatore si è battuto perché rimanesse come criterio di selezione il vecchio corso di formazione abilitante regionale, fucina di voti e clientele. Alla fine non è stato così, ma è la spia di un metodo. Che è quello che ha ammazzato il Sud».

Non c'è quindi un problema solo di competenze tecniche, ma anche politico?

«Un problema drammatico. Il bando sui rifiuti è stato rinviato perché molte Regioni del Sud non avevano presentato progetti, in quanto nessuno era in grado di approntarli. Che diciamo? Con chi ce la prendiamo? C'è o non c'è un problema di gestione dei rifiuti al Sud?».

Come se ne esce?

«Vanno assunte nella Pubblica Amministrazione persone preparate, non amici e parenti. Ogni sindaco può scegliere dei professionisti che lo aiutino attraverso il portale di reclutamento della Pubblica Amministrazione. C'è una Newsletter, "Parliamo", che arriva nella casella di ogni sindaco e di ogni dipendente pubblico e lo informa di tutti gli strumenti di consulenza tecnica dei quali può avvalersi. Comincino almeno a documentarsi. Serve una struttura di coordinamento tipo agenzia a livello centrale. Ma soprattutto, bisogna prepararsi per quando, tra qualche anno, finirà la stagione degli investimenti pubblici, coinvolgendo nei progetti le economie private dei territori di modo che dopo possano marciare sulle proprie gambe».

Perché sente che è una battaglia persa?

«Il ministro dell'Istruzione, di concerto con la Coesione territoriale e l'Economia, ha predisposto il più grande intervento educativo mai visto dal dopoguerra, ma non se percepisce la consapevolezza. Il Sud paga le conseguenze di decenni di abbandono, che hanno prodotto un contesto ambientale sfavorevole allo sviluppo e una classe dirigente che non sa organizzarsi, ha debole autostima, sguazza nel degrado rumoroso. Servirebbe una rivolta della comunità civile, economica e sociale del Meridione contro il metodo clientelare. Servirebbe ora, che dopo la pandemia l'Europa si è dimostrata per una volta solidale. Metà dei prestiti Ue del programma Next Generation sono destinati all'Italia, che è beneficiaria di un terzo dell'intero programma».

La crisi ucraina non rischia di spezzare i nostri sogni di gloria?

«La pandemia ci ha colto quando eravamo l'unico Paese europeo a non aver riguadagnato i livelli di prodotto interno lordo precedenti alla crisi del 2008 e ha fatto calare il nostro Pil dell'8,9%. Nell'anno peggiore della nostra storia, il 2021, il governo Draghi ha recuperato il 6,6%, tasso di crescita da miracolo economico. Il governo Conte2 ipotizzava che il nostro debito pubblico sarebbe salito al 160% sul Pil, Draghi l'ha contenuto al 150,%: ballano in meglio più di 9 punti, a dimostrazione che la sola via per ridurre il deficit è la crescita, ottenuta attraverso la riapertura in sicurezza dell'economia prima degli altri. Sono gli anni più complicati della storia, al Sud dico che il momento per risorgere o morire è questo».

 

 

 

Le sanzioni dell'Occidente alla Russia sono un autogol?

«Le sanzioni sono sacrosante, il rublo non vale più niente e i russi prelevano i loro soldi dalle banche russe. Putin ha già perso la guerra finanziaria ma per l'Europa e soprattutto per l'Italia gli effetti collaterali sono pesantissimi, possono arrivare ad equiparare quelli di una nuova pandemia. Siamo oltre il nuovo '29 mondiale. C'è una guerra finanziaria. Per la prima volta il mondo occidentale ha congelato le riserve all'estero di una banca centrale nazionale, ponendo le basi per un nuovo ordine planetario. È una sfida che punta al fallimento della Russia».

Quanto tempo ci vorrà?

«Mosca si è preparata, ha messo da parte denaro per finanziare la guerra, ha giocato sul prezzo delle materie prime. Ma dal Paese c'è una fuga di capitali spaventosa e le obbligazioni russe sono spazzature per tutte le agenzie internazionali, il default è già avvenuto, la Russia in venti giorni è tornata all'autarchia».

Ma a Mosca diamo un miliardo al giorno per comprare materie prime. Non si è mai visto un Paese in guerra che paga il rancio al nemico...

«Non c'è alternativa, se non tra due o tre anni. Se viene meno il fornitore russo, dobbiamo reperire sul mercato 29 miliardi di metri cubi di gas, ma è ragionevole pensare che potremmo racimolarne otto o nove...».

E se, come gli Usa, interrompessimo del tutto le forniture?

«Sarebbe come tornare in lockdown, la nostra economia crollerebbe di 8 punti almeno, e quella europea di 5. Siamo il Paese più dipendente sul piano energetico e agroalimentare dallo Stato aggressore, la Russia, e da quello aggredito, l'Ucraina, siamo in prima linea in questa guerra economica»".

Come ci si salva?

«Per gestire un'economia di guerra sono necessarie decisioni da stato di guerra. L'Europa deve imporre un tetto ai prezzi e deve fare gli eurobond per fronteggiare la crisi dell'energia. Ci vuole un piano finanziario Ue proprio come dopo la pandemia, bisogna passare a uno stoccaggio comune e tutti i Paesi devono fare investimenti che puntino all'autonomia energetica. Nell'impazzimento dei prezzi c'è molta speculazione, ma può essere fermata solo da un'azione comune».

Aspettando il piano comune europeo, in Italia si inizia a parlare di razionamenti e di caloriferi spenti...

«Sono assolutamente necessari i razionamenti come la sterilizzazione dell'Iva. Credo che alla fine si farà quello che si può fare. Il problema in Italia è che comandano in troppi; abbiamo venti piccoli Stati, che sono le Regioni, che pretendono di fare quello che vogliono e bloccano i cantieri di una centrale a carbone come di una pala eolica».

Non è che confidiamo ancora nell'arrivano i nostri, una vagonata di soldi dagli Usa?

«Inutile contarci. I soldi possono arrivare solo da una nuova Europa, capace di rinnovare il proprio rapporto con gli Usa in un'ottica di politica estera, di sicurezza ed economica comuni. Se ci riusciamo, l'Italia, con la Francia e la Germania, può finalmente entrare nel gruppo di comando dell'Europa». 

 

 

 

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