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Il bunker segreto che ha cambiato la Storia d'Italia: cosa c'è dentro

Paola Pellai
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Dopo trent’anni di latitanza, a Palermo è stato arrestato il boss Matteo Messina Denaro, tra i mandanti di tutti gli attentati mafiosi avvenuti in Italia tra il 1992 e il 1993. Sua la firma sulla strage di Capaci il 23 maggio 1992 nella quale morirono Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta. Sempre lui tra gli artefici dell’attentato di via D’Amelio del 19 luglio 1992 che uccise Paolo Borsellino oltre a cinque agenti della scorta. Queste stragi e quelle successive rappresentarono il contrattacco di Cosa Nostra alla conclusione del maxiprocesso sul quale proprio i giudici Falcone e Borsellino si erano impegnati in prima linea. Il più grande processo penale del mondo durò dal 10 febbraio 1986 al 30 gennaio 1992, giorno della sentenza della Cassazione. Nessuna aula del Tribunale a Palermo era in grado di contenerlo, così in soli 6 mesi venne costruita, a fianco del carcere dell'Ucciardone, un'immensa aula bunker, capace di resistere persino ad eventuali attacchi di tipo missilistico. In aula sfilarono 475 imputati (scesi a 460 nel corso del processo), circa 200 avvocati difensori e la sentenza in primo grado (quasi integralmente confermata dalla Cassazione) stabilì 19 ergastoli e pene detentive per 2.665 anni di reclusione. Borsellino e Falcone lavoravano a tempo pieno nel pool antimafia voluto nel 1980 dal consigliere istruttore Rocco Chinnici, il primo a saltare in aria nell'attentato in via Pipitone Federico a Palermo il 29 luglio 1983. Ma il lavoro infaticabile dei due magistrati proseguì senza tentennamenti: al Palazzo di Giustizia i loro uffici erano al piano terra con le finestre che davano all’esterno. Ai tempi c’erano solo tre telecamere in tutto il Palazzo e i due spesso si rifugiavano in ascensore per cercare un confronto o un segreto scambio di informazioni.

 

 

LUOGO SIMBOLICO
Ai due giudici si aggiunse in seguito la fondamentale collaborazione di Giovanni Paparcuri, l’autista di Chinnici scampato alla strage: fu lui ad “inventare” l’informatizzazione, all’epoca rivoluzionaria, del maxiprocesso che permise a Falcone e a Borsellino di accedere all’incredibile mole di documenti grazie a un pc. Con loro si trasferì in un area più riservata del Palazzo, al piano ammezzato, nel cosiddetto “bunkerino”, chiuso da una porta blindata e protetto da telecamere di sorveglianza. Noi ci siamo entrati in quel bunkerino ed è stato commozione, rispetto e rabbia insieme. Oltre quella porta c’è un corridoio su cui affacciano da un lato le porte degli uffici di Paparcuri, Falcone, Borsellino, dall’altro quella dell’archivio che ancora oggi custodisce il 20% delle centinaia di migliaia di documenti del maxiprocesso. Ogni stanza era “allarmata” singolarmente: partiva una sirena se i telefoni venivano intercettati, se si registravano vibrazioni sospette o se qualcuno provava a staccare la luce. Lì i giudici trascorrevano l’intera giornata, lavorando al maxiprocesso con il sostegno informatico di Paparcuri, un mago in fatto di floppy disk, registrazioni, bobine e microfilm.

 


Fino ad allora la gestione di tutti i dati informatici del Palazzo di Giustizia era stata incredibilmente lasciata a un’impresa privata esterna.
Oggi quel bunkerino è un simbolo di legalità, ma è anche la casa della tenerezza di due uomini che hanno sacrificato tutto per un ideale. Il bunkerino è diventato il Museo Falcone Borsellino, realizzato con la collaborazione di Paparcuri nel Palazzo di Giustizia di Palermo dalla Giunta distrettuale dell’Associazione Nazionale Magistrati di Palermo e supportato dalla Fondazione Progetto Legalità che organizza le visite. Inaugurato il 26 maggio 2016, ha già accolto oltre 30mila visitatori da tutto il mondo: non paghi un biglietto, ma per accedervi devi farne richiesta inviando una mail a [email protected], fornendo generalità e motivo della visita. Al Palazzo di Giustizia occorre sottoporsi ai vari controlli, ricordarsi che è vietato fotografare anche all’esterno mentre all’interno del bunkerino si possono scattare foto ad uso privato, ma per la pubblicazione, come per questo servizio, devono prima essere autorizzate dall’Associazione Nazionale Magistrati di Palermo. Nel bunkerino avverti subito che in quelle stanze è davvero cambiata la storia del Paese. «Ma – come mi ha spiegato Marco di Progetto Legalità durante la visita- la lotta alla mafia è un problema culturale, per troppi resta ancora il mezzo che ti risolve i problemi. Invece la mafia uccide, è indispensabile toglierle il consenso della gente e non accettare scorciatoie. Anche quella più banale come una raccomandazione».
 

 

SCHERZI FRA AMICI
Nel bunkerino il primo ufficio che incontri è quello utilizzato da Paparcuri: un viaggio a ritroso nel tempo con i rudimentali computer dell’epoca, i floppy disk con le dichiarazioni di Tommaso Buscetta, i registratori, i microfilm... Subito dopo c’è l’ufficio di Giovanni Falcone. Vicino alla finestra la sua scrivania e sulla destra di questa un’altra più piccola su cui il giudice aveva fatto mettere due monitor per controllare l’entrata del bunkerino. In una cornice la foto della moglie Francesca, morta con lui a Capaci, e un biglietto scritto a mano: “Giovanni amore mio, sei la cosa più bella della mia vita. Sarai sempre dentro di me così come io spero di rimanere viva nel tuo cuore. Francesca”. Sulla scrivania ci sono anche due paperelle di legno che il magistrato collezionava e che, regolarmente, per scherzo Borsellino faceva scomparire chiedendogli un riscatto di 5 mila lire per riaverle. Ci trovi anche l’ultima scatola di Toscani, i suoi sigari preferiti, e le 400 pagine di dichiarazioni che gli rese Tommaso Buscetta con tutti i suoi appunti fatti con una delle sue penne stilografiche. Le collezionava in un cassetto e ogni mattina sceglieva quale usare, rigorosamente con inchiostro nero o blu. Accanto alla scrivania c’è un tavolino con classificatori pienidi assegni, elemento fondamentale per il maxiprocesso. Il motto di Falcone era “follow the money”, ovvero seguii soldi per capire come il riciclaggio di proventi illeciti sia strumento criminale delle mafie. Così, nonostante la Guardia di Finanza eseguisse tutte le indagini per conto del pool antimafia, Falcone si faceva portare ogni assegno e documento bancario per ricontrollarlo. Giri nell’ufficio e ti accorgi di quanto fosse “casa”: c’è ancora una bottiglia di Chivas Regal, suo whisky preferito.


KIT DI SOPRAVVIVENZA
Subito dopo c’era l’ufficio di Borsellino. La prima cosa che cattura la mia attenzione è un soprabito blu appeso dietro la porta. A Paolo stava troppo lungo e a Palermo, viste le temperature, un soprabito è inusuale. Ma non era un soprabito qualsiasi: osservandolo attentamente noto cerniere sotto il colletto per agganciare un’imbottitura antiproiettile. Faceva parte del kit di sopravvivenza che il ministero di Giustizia aveva fatto avere ai giudici di Palermo. Di quel kit faceva parte anche una borsa portadocumenti blindata di piombo appoggiata su una poltrona: in casa di bisogno sarebbe dovuta servire da scudo agli spari. Ho provato a sollevarla: un peso eccessivo per un uso prolungato e quotidiano. Falcone aveva voluto vederci chiaro, ritenendo quel kit inutile fin dal momento in cui lo aveva ricevuto. Così affidò soprabito e borsa a tre poliziotti con il compito di andare al poligono e spararci sopra: glieli riportarono perforati dai proiettili. Non avevano superato il test di sopravvivenza. Sulla scrivania c’è il codice penale e la macchina da scrivere che lui, come me, utilizzava velocissimo con sole due dita. Falcone fumava i sigari, mentre di Borsellino restano le inseparabili sigarette Dunhill e il tocco, cappello simbolo del magistrato, che indossò per l’ultima volta il 25 maggio 1922 al funerale di Falcone. Dopo meno di due mesi sarebbe toccato a lui. 

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