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Camorra, il killer si laurea in galera e nella tesi confessa tre delitti

Claudia Osmetti
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Ha scritto tutto, ci ha messo dentro tutto. L’infanzia in una famiglia borghese di Castellammare di Stabia, nel Napoletano; il sogno da bambino di voler diventare un poliziotto; il diploma da ragioniere; la separazione dei genitori e quel film, Il camorrista, diretto da Giuseppe Tornatore, con Leo Gullotta e Ben Gazzara, che gli ha cambiato la vita. Nella sua tesi di laurea, Catello Romano, il detenuto Catello Romano che si trova recluso da circa quattordici anni, adesso nel carcere di Catanzaro, in Calabria, l’ex baby killer della camorra Catello Romano, ha “confessato” persino tre omicidi.

Due agguati per un totale di tre morti ammazzati: Carmine D’Antuono e Federico Donnarumma, freddati il 28 ottobre del 2008 in quello che è stato «l’evento più violento, traumatico e irrimediabile» dell’esistenza di Romano; e poi Nunzio Mascolo, ucciso poco dopo, una settimana a venire, il 5 dicembre dello stesso anno. «Fatti e circostanze che, ancora oggi, non hanno mai avuto un seguito giudiziario e, dunque, di appuramento di mie responsabilità penali dinanzi a un regolare tribunale». Non è una semplice tesi. Una di quelle redatte scartabellando manuali e libri impolverati, in ore e ore passate in biblioteca, nella stanza del prof relatore e, magari, con qualche esame ancora da dare.

 

 

 

FASCINAZIONE CRIMINALE
Fascinazione criminale, l’ha intitolata così, Romano. E diciamocelo subito: è stata valutata con un secco 110 e lode, con tanto di menzione accademica e pubblicazione. Facoltà: Sociologia. Relatore: il professor Charlie Barnao. Università: di Catanzaro. Candidato: questo ragazzo, ha appena 33 anni, che quando l’hanno arrestato era giusto in età di immatricolazione, maggiorenne da poco, barba rasa di un giorno e occhi scuri. È un uomo diverso, oggi. Tanto per cominciare ha fatto (sta facendo) i conti col suo passato: «Mi chiamo Catello Romano. Ho commesso crimini orrendi e sono stato condannato per diversi omicidi di camorra. Quella che segue è la mia storia criminale». Chi l’ha letta spergiura che sia un mezzo romanzo, una mezza confessione, uno spaccato (intero) della criminalità più insidiosa, più feroce, più indicibile. Quella di stampo mafioso.

 

 

 

Quella che ha portato all’assassinio, giusto per citarne uno, uno di quelli per i quali Romano è in prigione, del consigliere comunale di Castellammare Luigi Tommasino (Pd). Era il 3 febbraio del 2009. Romano era un fedelissimo di Renato Cavaliere, un esponente del clan D’Alessandro che oggi fa il collaboratore di giustizia ma ieri, ossia allora, era uno spietato camorrista. E la storia, alla fine, te la ritrovi lì, in quelle pagine rilegate col logo dell’ateneo calabrese sul frontespizio, in quel lavoro «autoetnografico» che va letto come «una sorta di intervista con sé stessi» e come «un’opera di verità e riparazione, non oso dire di giustizia, nei confronti di chi è stato direttamente colpito dal mio agito deviante». Ha cinque accuse di omicidio, Romano. Per due si è già beccato altrettante pene definitive, ha (almeno) una decina di annidi galera da scontare. Ancora. Ed è stato uno dei più attivi baby killer della camorra: la sua tesi è che «il crimine esercita una profonda fascinazione» sui giovani e sugli adolescenti, arrivano pure a «sostituire la famiglia d’origine».

 

LA CONVERSIONE
Famiglia che lui aveva, che ha a tutt’ora: tanto che mamma Annamaria era presente, mercoledì pomeriggio, alla discussione di laurea. «Davanti alla commissione ho ritrovato il vero Catello», ha detto, «certo, ha sbagliato. Ma ora sta pagando per quello che ha fatto. E dio, almeno per un giorno, me l’ha riportato davvero in vita». La religione c’entra, in un dato senso. «Al 41-bis di Novara», ha spiegato l’avvocato di Romano, il legale Francesco Schettino, il suo assistito «è stato il primo detenuto italiano a farsi assistere da un monaco buddista. Ora, invece, si è convertito all’islam». Al punto che, oltre alla mamma, mentre spiegava e rileggeva e riassumeva la sua tesi davanti ai professori che l’avrebbero giudicata, c’era anche Yahya Pallavicini, di professione imam (esercita a Milano) «con il qualche, in questi anni, ha intrattenuto un rapporto costante». La media del 29,5 e il desiderio, di adesso, di voler ricominciare «da quel Catello che era prima di tutto ciò che ho raccontato». Non servirà a riportare indietro le lancette della storia o a cancellare il dolore delle vittime e dei famigliari delle vittime che Romano ha creato (e lo sa bene lui stesso), ma è qualcosa. È un primo passo. Una presa di coscienza. Una sorta di pentimento, messo nero su bianco, che, lo dobbiamo ammettere, non è da tutti. 

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