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Studenti, altro che Palestina: lottano per il diritto al ritardo

Alberto Busacca
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Contro Israele ma anche contro la scuola «darwiniana». Per dire basta a un’istruzione di tipo «coloniale» ma anche per il diritto ad arrivare tardi in classe. Signori, pure quest’anno sono iniziate le occupazioni e le proteste nelle scuole superiori. Dagli sgabuzzini sono usciti striscioni, megafoni e bandiere, mentre i ragazzi più motivati hanno iniziato a scrivere le fantozziane “piattaforme rivendicative”. Che questa volta, va detto, sembrano particolarmente fumose e confuse. Certo, quando si criticano i giovani che protestano è facile fare la figura dell’anziano borbottone, quello che “ai miei tempi era tutto diverso”. Vabbè, correremo il rischio, nella speranza che i ragazzi non si offendano e magari imparino a prendersi un po’ meno sul serio (e a ragionare un po’ di più con la propria testa).

Partiamo dal liceo Pilo Albertelli di Roma, il primo a essere occupato giovedì scorso. Alla finestra sventola la bandiera della Palestina, ma dietro alla mobilitazione c’è anche altro: «Quest’anno ci sono state poche iscrizioni. La colpa è di questo modello di scuola-gabbia: continuano a persistere situazioni di stress ed ansia provocate da un sistema scolastico basato sul merito, sulla competizione e sull’individualismo». Già, come sarebbe rilassante una scuola dove se studi o no è lo stesso...

 

 

 

Restando nella Capitale, domenica sera è stato occupato anche il Visconti. «Proponiamo un vasto programma di corsi, conferenze e didattica alternativa», spiegano gli studenti, «per dare la possibilità a tutti di arricchire il proprio patrimonio culturale». Bene. Ma passiamo alle motivazioni della protesta: contestare (anche qui) la cosiddetta “scuola del merito”, che, sostengono, ha portato a una «brutale selezione darwiniana che premia chi eccelle e lascia indietro chi ha difficoltà»; criticare la riforma del voto in condotta che «mira a penalizzare i ragazzi che occupano i loro istituti»; chiedere l’abolizione delle segnalazioni per i “ritardi brevi”, quelli che vanno da uno a dieci minuti dall’inizio delle lezioni. Questa norma, dicono gli occupanti, «provoca disagi a numerosi studenti che non vivono in centro e devono affidarsi ogni mattina al sistema di trasporto pubblico romano, alimentando il concetto classista e discriminatorio della “scuola di quartiere”».

Insomma, la nota per gli ingressi fuori orario è classista, perché discrimina chi vive in periferia e ci mette più tempo ad arrivare in classe. Alè, diritto al ritardo per tutti. Col solito rischio di passare per borbottoni, segnaliamo ai ragazzi che nel mondo del lavoro la scusa “io però abito lontano” non è ritenuta valida e non consente di presentarsi in ufficio dieci minuti dopo tutte le mattine. Tanto vale abituarsi fin dal liceo ad uscire di casa un po’ prima... Sempre dal Visconti arriva poi la richiesta di una scuola pubblica antifascista (perché, lì si va in classe in camicia nera?) e la proposta di «un modello alternativo di scuola, che non si basi sull’individualismo e la competizione ma sull’integrazione e la crescita personale e che educhi gli studenti come membri di una comunità» (questo punto sembra scritto da Elly Schlein...).

 

 

 

Più centrate sulla Palestina, invece, le motivazioni della mobilitazione al liceo Giambattista Vico di Napoli. «Con questa occupazione», spiegano i ragazzi, «vogliamo rompere il silenzio, inaccettabile, che ci viene imposto dall’informazione occidentale davanti alle migliaia di morti civili della Striscia. Pretendiamo che nei nostri licei si dica chiaramente che a Gaza è in corso un genocidio che nessun modello d’istruzione coloniale e filo-sionista potrà giustificare». Sarebbe interessante approfondire il concetto di «modello d’istruzione coloniale», che purtroppo non è spiegato meglio. Speriamo nella prossima piattaforma, in fondo l’autunno caldo delle scuole è appena cominciato... 

 

 

 

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