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Adozioni, il crollo per colpa di fecondazione artificiale e utero in affitto

Claudia Osmetti
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Da una parte ci sono le adozioni, che sono sempre meno. Dall’altra la pma, vale a dire la procreazione medicalmente assistita (pressoché in costante crescita), la maternità surrogata (idem), i viaggi all’estero per l’eterologa (pure). La denatalità, le culle vuote, il crollo demografico che è passato, in appena dieci anni, dai 500mila nati del 2012 ai 390mila di oggi. Mica è vero, però, che gli italiani di figli non ne vogliono sentir parlare: è vero, semmai, che li cercano anche quando non arrivano. Niente di male, anzi semmai il contrario: ché il costo della vita è caro, e il costo della vita con un bebè da crescere lo è ovviamente di più. Il nido, l’asilo, le vacanze, la scuola, la palestra. Ma, spesso, quello del portafogli non è un ostacolo insormontabile. Non tanto da far desistere chi ha il sogno di costruirsi una famiglia tutta sua.

Capitolo adozioni. Ossia la forma più tradizionale, più antica (e non per questo la più facile) per supplire laddove, purtroppo, la natura si è messa di traverso. Ecco, appunto, le adozioni. Le domande per l’adozione di minori italiani è diminuita della metà negli ultimi vent’anni. Se ne contavano (li ha contati il dipartimento per la Giustizia minorile, i report sono disponibili sul sito del ministero) 12.901 nel 2001 e siamo arrivati a 7.970 nel 2021, che poi è anche l’ultimo anno disponibile in termini statistici. Una sforbiciata continua a partire dal 2015, quando sono state 9.007, ben sotto le 10mila unità (e il periodo non è casuale dato che nel 2014 la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittimo il divieto di fecondazione eterologa, di fatto ampliando le possibilità delle pma: ma su questo ci arriviamo). Ora si assestano intorno alle 8mila annue, le richieste di adozioni, col record negativo del 2020 (6.982) dovuto alla pandemia da Covid-19 che ci ha rallentato l’esistenza, figurarsi la burocrazia.

 

 

 

PERCORSO A OSTACOLI

Perché c’entra, la burocrazia. Eccome. È che un conto sono le domande per adottare un bambino e un altro sono le pratiche concluse, quelle andate a buon fine, quelle col bollo del tribunale e la decisione presa: nel 2021 hanno riguardato appena 866 bimbi o ragazzini, praticamente poco più di un decimo delle possibili famiglie che ne hanno fatto richiesta (richiesta che è molto alta a Napoli con 534 istanze ufficiali e a Roma con 539, per esempio, ma che è più bassa a Sassari e a Cagliari, rispettivamente con 87 e 109).

Sul fronte delle adozioni internazionali va persino peggio: nel 2021 sono stati adottati 563 minori stranieri, nel 2022 sono stati 565 e nel primo semestre di quest’anno altri 248 (38 colombiani,75 indiani, tredici peruviani e 23 ungheresi: in calo, sulle stesse procedure del 2022, di 75, zero, undici e 45). Una fotografia per certi versi desolante, su entrambe le facce della questione (quella nazionale e quella internazionale): perché sì, l’adozione sta subendo un ridimensionamento, pure stazionario e generalizzato, epperò no, non è un ripiego, è amore e anche amore disinteressato. Di quello che il sangue è un’altra cosa e comunque non è tutto, e che i figli sono di chi li accudisce e di chi vuol loro bene. Il resto vale poco. O meglio, vale quel che vale.

 

 

 

Ci vogliono in media quattro anni e cinque mesi per adottare un bimbo (e le lungaggini delle pratiche, al contrario dei protocolli accatastati nei tribunali per i minorenni di mezzo Stivale e pure dell’altra metà, si sono dilatate dal 2019 al 2022); ci vogliono almeno 20mila euro nei casi internazionali (perché tocca mettere in conto i viaggi, quasi sempre più d’uno, i visti, le spese dell’interpretariato); ci vuole pazienza. Tanta pazienza.

 

LE PMA

La stessa pazienza che, per certi versi, impiega chi decidere di mettere al mondo un bimbo suo, pur con qualche difficoltà. Nel 2019 (esistono anche le cifre del 2020 ma sono sfalzate dall’emergenza sanitaria), in Italia, sono stati effettuati 99.062 cicli di pma, un numero in leggero aumento rispetto sia al 2018 (97.509) sia al 2016 (91.409): sommando tutte le tecniche disponibili (dalla fecondazione in vitro all’inseminazione ultrauterina), solo nel 2019 e solo nel nostro Paese, sono nati 14.162 bambini, il 3,4% della popolazione generale venuta alla luce nello stesso periodo (questo lo dicono i rapporti ufficiali dell’Iss, l’Istituto superiore di sanità, direttamente consultabili sul portale dell’ente).

 

 

 

Ben oltre 10mila aspiranti genitori, anche qui non è più una sorpresa, vanno all’estero per accedere ai trattamenti di pma che (ci siamo arrivati) da una decina di anni a questa parte sono più accessibili anche da noi, ma che restano maggiormente in alcune altre zone d’Europa: nel 2017 all’incirca 3.300 coppie italiane si sono recate in Spagna (dove la legislazione è infatti più elastica) nella speranza di mettere al mondo un figlio. Poi c’è la maternità surrogata, al secolo l’utero in affitto, di cui si sa poco (quantomeno in termini statistici perché numeri precisi è difficile, per ovvie ragioni, ottenerne) e che, tuttavia, sembra anch’essa un fenomeno in crescita: in Italia viene praticata, si tratta di stime empiriche, circa da 250 coppie all’anno, nove su dieci composte da partner eterosessuali. Nel 2016, per avere un termine di paragone, pur da prendere con le pinze, quindi appena sette anni fa, si stimavano cifre di molto inferiori: cento bimbi e l’80% di genitori eterosessuali che optavano per una madre surrogata.

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