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Marinai senza nave, ecco il dramma dei "barboni del mare" che pochi conoscono

Alessandro Dell'Orto
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Li vedi spuntare qua e là, dai ponti delle navi cargo ormeggiate qui al porto di Ravenna, e poco dopo sono già spariti nel nulla. Li riconosci dalle tute colorate, sono per lo più filippini, cinesi, russi e li chiamano gli invisibili del mare. Vivono otto mesi l’anno in acqua cavalcando il mondo, stanno lontani dalle famiglie e la loro casa è la valigia, sempre pronta a essere riempita. È come se non esistessero, però senza di loro sarebbe l’economia mondiale a non esistere, o quanto meno a fermarsi. Ma quella che già è una vita dura, per gli invisibili, rischia di diventare un incubo quando senza preavviso - diventano i barboni del mare. Basta che l’armatore della nave su cui lavorano vada in difficoltà economiche e dichiari il fallimento - e succede più spesso di quanto immaginiamo- che loro, indipendentemente che siano mozzi o comandanti, vengono lasciati soli nel porto in cui si trovano in quel momento: senza stipendio, senza viveri, senza luce e riscaldamento. Senza un biglietto aereo per tornare a casa, che è quasi sempre dall’altra parte del pianeta.

Ecco perché nel 2006 il Comando Generale delle Capitanerie di Porto (su iniziativa dell’Ammiraglio Raimondo Pollastrini) ha fondato il Comitato Nazionale di Welfare della Gente di Mare, che poi ha dato vita a 26 sezioni territoriali. «Questo di Ravenna è nato il 23 febbraio 2009- racconta il capitano Carlo Cordone, storico presidente del Welfare locale- e ci occupiamo dell’accoglienza e dell’assistenza dei marittimi». Il porto di Ravenna - un canale di 12 km di banchine lontano dal centro abitato- ospita in media 3.000 navi l’anno e circa 100.000 marittimi, ma la struttura particolare dell’area ha sempre creato difficoltà nel collegamento con la città, tanto che nel 2008 era considerato da black list.

 

 

LA TRASFORMAZIONE
«Non c’erano autobus, non c’era niente. Oggi invece abbiamo un nostro servizio navetta di minibus che abbiamo donato a Stella Maris (l’associazione internazionale che è il braccio operativo del Welfare, nata nel 1920 e presente in 328 porti nel mondo per l’assistenza spirituale, materiale e sociale ndr) - spiega Cordone -. Tra i tanti modi per raccogliere fondi, oltre ai contributi dell’Autorità di Sistema Portuale e di Fondazioni bancarie o all’autotassazione dei membri del Comitato Stesso, mi sono inventato una specie di donazione da chiedere alle navi che entrano in porto: 15 euro che a fine anno ci permettono di avere 30, 40 mila euro da investire sui trasporti. In aggiunta ai minibus, poi, abbiamo preparato dei pass che, presentati all’autista dei pullman, permettono di viaggiare gratis grazie a un accordo con le linee degli autobus di Ravenna.

 

 

Così i marittimi di passaggio possono andare in città a fare la spesa, comprare regali, o fermarsi alla Stella Maris per distrarsi, pregare, parlare con le proprie famiglie attraverso Skype. La cosa più importante è far capire loro, ragazzi che spesso hanno due lauree, gente che ha studiato ma nel proprio Paese non ha alternative e si adatta a fare il cameriere a bordo delle navi pur di avere uno stipendio fisso per poter aiutare la famiglia, che non sono soli». Accoglienza, ma non solo. Il grande lavoro del Welfare è garantire assistenza e supporto nelle emergenze.
«Quando muore un marittimo, se non c’è nessuno che si preoccupa della salma, questa stessa viene messa in una fossa comune. E la famiglia, oltre al grande dolore della perdita, non ha neanche un posto dove andare a piangere il proprio padre, il proprio figlio, il proprio fratello. Noi riusciamo a rimpatriare le salme alle famiglie e a contribuire assicurando le loro paghe di qualche mese». Situazioni complicate, delicate, difficili da gestire.

Come quando, nel luglio 2020, un marittimo filippino di 26 anni (Qu Xue Jun) imbarcato sulla Asia Pear V battente bandiera di Singapore, è caduto in sale macchine facendo un volo di 8 metri e si è rotto il bacino e una gamba. Il comitato Welfare è intervenuto offrendo assistenza linguistica in ospedale e poi, dopo l’operazione, pagandogli un albergo per un mese mentre faceva la riabilitazione. Infine, offrendogli il biglietto aereo per tornare a casa. Il momento più difficile, ovviamente, è stato nel periodo del Covid. «Gli unici che continuavano a lavorare erano i marittimi. Le navi non si sono mai fermate e loro, a bordo da un anno senza la possibilità di fare le ferie o farsi dare il cambio dai colleghi, non riuscivano a scendere a terra perché non erano vaccinati. E qui il Comitato Welfare di Ravenna è intervenuto in una maniera determinante, grazie soprattutto all’Asl dell’Emilia Romagna che ci ha permesso di vaccinare i marittimi e liberarli».

Ma il lavoro più delicato e impegnativo del Welfare, economicamente e umanamente, è quando qualche cargo viene abbandonato in porto e c’è da aiutare i barboni del mare. È successo nel 2010 con gli equipaggi (17 marittimi) delle navi Mv Servet Ka, Berkan B, Ayko2 e Mv Zodiac (tutti rimpatriati in 5 giorni senza dover aspettare i tradizionali 4 mesi) e nel 2014 con le navi russe Delphinus, Volgo Don 217 e Stas (35 marittimi in tutto, assistiti e poi rimpatriati). L’operazione più complicata, però, è stata quella dell’estate 2020, quando le navi Gobustan e Sultan Bey sono state sequestrate in porto a Ravenna.

LE NAVI SEQUESTRATE
«L’armatore era nato in Azerbaigian ma era naturalizzato turco e aveva 130 imbarcazioni: quando è stato arrestato da Erdogan con l’accusa di aver appoggiato gli ideatori del fallito colpo di stato del 2016, però, le banche gli hanno voltato le spalle si è ritrovato senza fondi, non riuscendo più a pagare i fornitori- ricorda Cordone- Abordo c’erano 27 lavoratori, 27 padri di famiglia azeri dell’Azerbaigian lasciati soli, senza viveri né gasolio e senza la possibilità di scendere a terra per il Covid. Gli abbiamo garantito cibo, luce e aria condizionata almeno di notte. Il problema è che i marittimi sono ingenui come bambini, non credevano che l’armatore li avesse mollati così e non volevano dichiarare lo stato di abbandono che avrebbe fatto scattare le assicurazioni. Sono riuscito a convincerli solo grazie all’aiuto dell’ambasciata dell’ Azerbaigian.

Dopo tre mesi, finalmente, abbiamo prenotato un volo, abbiamo organizzato le vaccinazioni e i tamponi e li abbiamo portati in aeroporto». Ma non era finita lì. Anzi. «Sono tornato a casa, ho acceso la televisione e mi è crollato il mondo addosso: era scoppiata la guerra in Azerbaigian. Ho detto: “Padreterno, ora tocca a te”. La mattina seguente, per fortuna, mi hanno confermato che il volo non era stato cancellato e poco dopo ho ricevuto la telefonata del comandante che mi ha detto in lacrime: “Siamo a bordo, stiamo per decollare”. È stata una gioia immensa, un’esplosione di felicità per loro. Questa esperienza è stata veramente formidabile per me. E come marittimo mi sono sentito realizzato per aver fatto qualcosa di bello per i miei colleghi, per i miei amici. Per quello che è questo tipo di attività». La preziosa attività del Comitato Welfare della Gente di Mare, che accoglie gli invisibili e salva i barboni. 

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