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Giovani, perché sono considerati immaturi? La colpa è di chi non li educa

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Ginevra Leganza
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Gli inglesi li chiamano “fiocchi di neve”. I taiwanesi li irridono “fragole”. In entrambi i casi sono i giovani fragili. I ventenni che sciolgono, come neve al sole. I trentenni colti, come i frutti di bosco: istruiti, studiati, ma delicati. Di facile ammacco. Strawberry e snowflake sono i membri della Gen Z, quelli che non puoi toccare senza rischiare di far appassire. Perfida Albione? Provocatoria Taiwan? Forse. Eppure a suffragare i motti di spirito, oggi, è un sondaggio di Intelligent, rivista specializzata in temi cari agli studenti. Primo fra tutti, il lavoro. Ed ecco. Invero nulla dice Intelligent che non sapessimo già. A trovarlo, il lavoro... I giovani fanno fatica, non riescono, son sfiduciati. Ma buona parte di questa fatica – qui la notizia – pare dipenda da loro. Dalla sfiducia. E perciò dall’ammacco facile.

Su 800 manager statunitensi, lo studio ha rilevato un buon 38% di datori più propensi ad assumere anziani. Anche a costo di stipendi più alti, ferie più lunghe e quant’altri benefit. Meglio uomini e donne che ne han viste di tutti i colori, dicono i ceo, che non i primi venuti. Ragazzi e ragazze che potrebbero risentirsi anche solo per esser tali, perché magari li abbiamo chiamati ragazzi con la “i” anziché usare l’asterisco. Meglio ripescare un pensionato, quindi, che non selezionare volti nuovi che però non si vedono. Letteralmente. Il 53% dei manager sostiene di avere difficoltà a incrociare lo sguardo dei candidati, che durante i colloqui guardano in basso; il 21% parla dei venti-trentenni proprio in termini di frutti assiepati nel bosco (digitale, s’intende): giovani che, pur funestandoci di selfie nel dopolavoro, si rifiutano di palesarsi a favore di camera e restano al buio durante gli incontri online; il 19% si ritrova persino ad accogliere candidati scortati dai genitori.

 

 

Si offendono facilmente, dicono gli intervistati, e arrivano in ritardo. Parlano, scrivono male e, se possibile, vestono peggio. Una catastrofe per gli esperti in comunicazione strategica che suggeriscono ai ceo d’assumere delle guide – dicesi “guide” il neo sciamanico coach, lo sapete – e dunque suggeriscono d’assumere per assumere. Onde s’insegni come vestire, come dire, come non dire, parlare e scrivere mail. E sarà che l’intuito non ci soccorre. Sarà che a scuola le divise e i grembiuloni – sia mai s’ammacchi la creatività delle fragole – non si portan più. Anche se – si sa – le cravatte risolverebbero moltissime grane estetiche (la divisa, dalle Marcelline, ce la spacciavano come scongiuro alla minigonna. L’avremmo capito anni dopo che serviva anzitutto a sventare il fucsia dei truzzi, le felpe da emo, i vestiti da cretini). E vabbè, sarà quel che sarà. E sarà pure che a scuola, tra un’ora di mental coaching e un’altra di sex education, si dimenticano d’insegnarci l’abbiccì. Ma il fatto è che in questa catastrofe qualche colpa ce l’hanno anche loro. Quelli che non insegnano e poi quelli che non assumono.

 

 

Il sociologo Frank Furedi, nel solco della cosiddetta infantilizzazione dell’umanità, ha scritto degli studenti occidentali. Il cui bamboccismo, sostiene, «ha finito per istituzionalizzarsi» (F. Furedi, I confini contano, Meltemi, 2021). Perché ci sono rettori, nel mondo, nel nostro amato mondo, che trattano gli alunni come «bambini biologicamente maturi», munendoli di giocattoli fra un esame e l’altro per superare lo stress pre esame. Di che stranirsi, allora, se al quanto e come uno la telecamera non l’accende? Sarà lì che gingilla coi tigrotti peluche, coi gattini anti stress e con tutti i pupazzetti che però – attenzione – glieli hanno comprati loro. I grandi. Glieli ha dati la maestra prima e il rettore poi. E cioè i grandicelli che prima li seminano e poi li raccolgono fragole. Prima li cicciano e poi si costringono a mantenerli a vita. Giacché di lavoro – si sa – non ce n’è. Altro che ora di sex education. Ci vorrebbe annidi esami di coscienza.

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