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La Resistenza ignorata degli eroi dell'Appennino

Marco Patricelli
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Nelle colate di melassa retorica sul 25 aprile nessuno ha ricordato un’altra Resistenza, quella che ebbe un valore morale cristallino nello scenario infernale degli Appennini innevati e con lo stesso rischio della vita di chi imbracciava il fucile. La chiamarono Resistenza umanitaria, sui libri di storia non c’è finita praticamente mai, salvò italiani e stranieri senza chiedere né nomi né compensi. A quel fenomeno spontaneo dell’Abruzzo occupato espresse riconoscenza e gratitudine il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, nel 1943 sottotenente di complemento del 9° autieri, il quale, rifugiato a Scanno, riuscì attraverso le montagne a oltrepassare la Linea Gustav e a raggiungere l’Italia liberata.

 

I passatori erano gente semplice. I loro nomi sono rimasti fuori dalla storia ufficiale: Alberto Pietrorazio, Domenico Silvestri, Roberto Cicerone (che l’Allied Screening Commission definirà «il più grande soccorritore nella zona di Sulmona»), il dentista Mario Cocco, il barbiere Vincenzo Pistilli, Carlo Autiero, Amedeo Liberatore, Ettore De Corti (primo fucilato dai tedeschi nell’ottobre del 1943), Ugo De Grandis, Vincenzo Del Signore, Mario Di Cesare, Rinaldo Gampietro, Mario Grande, Gino Ranalli, e persino una donna, Iride Imperioli Colaprete che faceva da staffetta con Roma e il Vaticano. Furono loro e diversi altri ad aprire il cosiddetto Sentiero della libertà e a mantenerlo aperto dall’inverno 1943 alla primavera del 1944, permettendo la salvezza di ex prigionieri alleati (in Abruzzo ce n’erano 135.000) e di italiani. 

 

Alcuni nel dopoguerra saranno segnalati per essere insigniti della King’s Medal al valore, che in realtà non avranno mai, sostituita da un premio in danaro, e Cocco verrà invece segnalato per la Medal of British Empire. Ciampi scriverà che quando offrì danaro a Domenico Silvestri per essere portato oltre le linee, questi rifiutò dicendogli che non si poteva far mercato delle vite umane. La sua venne salvata da Pietrorazio, che guidò un gruppo di una sessantina di persone che si era messo in marcia il 24 marzo da Sulmona. Oltre a Ciampi ne fanno parte i fratelli sulmonesi Carlo e Oscar Autiero, ma non gli amici Guido Calogero e l’ebreo Beniamino Sadun. Quella traversata dura 25 ore in condizioni inimmaginabili. Lo racconterà il futuro Presidente in un diario che donerà al Liceo scientifico “Fermi” di Sulmona. «Verso gli ottocento metri comincia la neve. Poco dopo Alberto ci invita ad essere particolarmente silenziosi perché siamo vicini a Campo di Giove». Dopo un po’ un ex prigioniero alleato che non ce la fa più chiede di rallentare, ma Pietrorazio è inflessibile: se non si raggiunge Guado di Coccia prima dell’alba, si incapperà nelle pattuglie tedesche e sarà la fine di tutti e il plotone d’esecuzione per lui e le altre due guide. L’uomo viene lasciato indietro. Si cammina nella neve dove si sprofonda fino al ventre; Ciampi dice che in alcuni tratti si deve camminare a quattro zampe. 

 

Nella zona di Guado di Coccia imperversa una tormenta. Non si vede nulla. Il freddo è insopportabile, si rischia il congelamento, il timore è di fare la fine della spedizione di Domenico Silvestri, di cui solo per caso Ciampi non aveva fatto parte, che era stata intercettata dalle pattuglie tedesche. Dall’alba a fino a quasi le 11 «accecati dal vento e dalla neve», al quinto vallone inizia la discesa: «A vederci siamo assai mal ridotti: i piedi li sento gelati, specialmente il destro dato che si è scucito il tallone della scarpa; le mani pure, perché i guanti di lana bagnati dalla neve sono diventati rigidi, ugualmente buona parte della maglia che ho in testa (...). Ci fermiamo alcuni minuti sulla strada rotabile, poi entriamo nel paese e ci viene incontro tra la nostra gioia un tenente indiano. Ce l’abbiamo fatta!». In quel momento arriva anche una pattuglia italiana di volontari, i patrioti della Brigata Maiella che presidiano le zone più impervie per conto del 5° Corpo d’armata inglese. In dieci non ce l’hanno fatta: sette stranieri e tre italiani avevano perso il contatto durante la bufera ed erano stati inghiottiti dalla montagna. Ciampi, dopo una sosta a Fara San Martino, viene interrogato dai poliziotti militari inglesi, insospettiti dai visti tedeschi sul passaporto del sottotenente italiano. Nel timore che si tratti di una spia, si comportano tutt’altro che da gentlemen e poi lo consegnano ai carabinieri, che portano lui e i fratelli Autiero al campo di concentramento di Paglieta, quindi a Vasto con scorta britannica, poi ancora a Guglionesi per un nuovo interrogatorio, rinchiudendoli infine in un campo di concentramento.

 


Solo il 30 marzo, dopo l’ennesimo interrogatorio in cui Ciampi fa i nomi dei protagonisti del “Sentiero della libertà” che collimano con quelli riferiti dagli ex prigionieri alleati, gli inglesi gli credono, lo liberano e gli consentono di raggiungere Bari. Decenni dopo dirà: «Se fummo capaci di ritrovare i punti cardinali di riferimento, di riconquistare la serenità dell’animo, di fare le conseguenti scelte e di perseguirle con determinazione, di sentirci di nuovo parte viva di una società di eguali, ciò fu dovuto al clima umano che respirammo in queste montagne, in questa terra d’Abruzzo. Una popolazione povera, provata da anni di guerra, semplice ma ricca di profonda umanità, accolse con animo fraterno ogni fuggiasco, italiano o straniero, vide in loro gli oppressi, spartì con loro “il pane che non c’era”; visse quei mesi duri, di retrovia del fronte di guerra con vero spirito di resistenza, la resistenza alla barbarie».

 

 


Sotto altra forma lo riconosceva anche un rapporto del 27 marzo 1944 del comando del 51° Corpo alpino tedesco: «Centro dell’intera attività nemica dietro il fronte è la zona del Gran Sasso. La centrale per il passaggio a Guardiagrele si trova a Chieti, quella per il passaggio sulla Maiella a Sulmona. Le persone che devono attraversare il fronte vengono portate a piccoli gruppi dalla zona del Gran Sasso ai luoghi di passaggio; successivamente vengono riuniti in gruppi più consistenti e, sotto la guida di persone esperte che conoscono i sentieri della montagna, cercano di attraversare le linee (...). I prigionieri di guerra e i paracadutisti catturati dicono che, negli ultimi tempi, l’attraversamento è diventato difficile, gli italiani arrestati affermano che una sola guida avrebbe fatto passare nella zona della Majella circa 1.000 persone. La percentuale degli anglo-americani in tali imprese è del 20-30% e i fili dell’organizzazione da Sulmona arrivano fino a Roma».

 

 

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