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Fascismo, l'ultimo (folle) allarme: troppi palazzi del Ventennio

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La notizia è che la cancel culture in Italia non esiste, o almeno è un falso problema. Il nostro Paese ha nella conservazione e nella memoria uno dei principali core business: l’antichità, le radici, la storia procurano un notevole impatto culturale e turistico, chi viene da noi cerca questo e non altro. Si applicassero i criteri in voga oltre Oceano non ci sarebbero più le testimonianze degli imperatori romani, che furono pessimi, di carattere e nei fatti, tantomeno i palazzi dei re, forse le chiese, né soprattutto l’architettura fascista. Gli americani si possono anche capire, non hanno storia né tradizione e dei loro scheletri nell’armadio vogliono liberarsi in fretta, visto che i simboli non hanno particolare valore estetico.

In Italia, verrebbe da dire per fortuna, il passato non è un peso, anche nelle sue contraddizioni. Giusto talora ricontestualizzarlo, rimuoverlo mai. Il dibattito sulla questione della difficile eredità dell’architettura fascista continua soprattutto in ambito accademico, a partire dagli studi di Ruth Ben-Ghiat che peraltro contravvengono all’ultima moda americana, per cui puoi occuparti di neri, donne, minoranze solo se appartieni a tali categorie, non dall’esterno, mentre perla nostra generazione era diverso, quindi possibile che un’americana ebrea di origini scozzesi studi il ventennio italiano. Dibattito che continua alla John Cabot University con la presentazione della raccolta di saggi A difficult heritage. The afterlives of Fascist-era art and architecture curata da Carmen Belmonte, docente di Roma Tre e pubblicato nella collana della Biblioteca Hertziana Istituto Max Planck cui partecipano studiosi e storici (...)

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