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Coronavirus, lavorare da casa è un incubo. Figli, mogli e vicini: ridateci l'ufficio...

Smart working

Francesco Specchia
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C'è un curioso risvolto del Coronavirus, definitela pure “invidia sociale del contagio”. E' lo smart working, il lavoro da casa. Un brivido professionale che non provavo più da quand'ero giovane freelance. E già allora non è che ne fossi entusiasta.  La situazione è la seguente. Io sono blindato a casa, con la sindrome del lazzaretto manzoniano, immerso nel terrore di vivere a 70 chilometri dalla “zona rossa”, attaccato al pc come a un polmone d'acciaio. Ma un collega romano, per telefono, mi illustra il lato luminoso della medaglia: “Guarda, in fondo, ti ha detto culo”. Ah davvero?,  rispondo io dalla taverna, la voce strozzata dalla mascherina e le mani a bagnomaria nell'amuchina. “Ma certo, non hai letto il Sole24 Ore? Il Coronavirus, ti fa un favore: tu stai facendo lo smart working. Ti rendi conto? Puoi lavorare in mutande, con i tuoi tempi, soprattutto stai testando la resilienza organizzativa della tua azienda, come dice l'osservatorio Digital Innovation delle School of Management del Politecnico…”. Ah, già, il Sole 24 Ore, il Policlinico, la resilienza organizzativa e tutto il resto. Non ci avevo pensato. Che stupido. In fondo -ci rifletto su- al grido di “meno burocrazia, più tecnologia” grandi aziende come Allianz, Generali, Sman, Ubi, Accenture, L'Oreal e perfino Illimity, -la nuova banca di Passera con la sua “architettura fully digital e fully on cloud”, stanno tutte facendo di necessità virtù. E se tutti questi giganti, sposano, contro il contagio, il lavoro da remoto per almeno due settimane, be', allora siamo davvero con un piede nel futuro. Fortunello che sono, penso. Sto nella gran Milan. Faccio parte del 53% degli smart worker del profondo nord ovest: sono un vaso sanguigno del cuore produttivo, un vagoncino attaccato alla locomotiva del Paese. Dio, lavoro da casa. Posso ascoltare il primo tg della giornata in pigiama; sbattermene dei mezzi pubblici; non incrociare gli sguardi dei colleghi più patibolari; e saltare a piè pari le riunioni interminabili, i mezzi sorrisetti del marketing, le visite dei politici. Lo smart working sarà il futuro. Questo sulla carta, in condizioni normali. La realtà disegnata dalle ordinanze regionali, invece, è differente.  Perché per contenere il Covid19, oltre inchiodare a casa me, il governatore Fontana ha costretto agli arresti domiciliari pure mia moglie e, soprattutto, i miei figli di otto e cinque anni allontanati inopinatamente dalla scuola -almeno per una volta- causa decreto. Tutti insieme appassionatamente. Si è ricreato il microcosmo familiare di tutti i giorni, immerso però nella cubatura ristretta di un ambiente lavorativo fittizio. E questo - due o più corpi nel medesimo spazio- per il principio di Archimede è un'ipotesi non contemplata dalla fisica, se non quella quantistica. Quando, piano piano realizzo la fregatura, il destino ha già disegnato il suo letale arabesco. Tento di imbastire un minimo di strategia organizzativa per lavorare: i pupi confinati su nelle stanze a disegnare, la moglie legata al computer e al faldone delle slides in cucina, io barricato al pianterreno a scrivere. Perlomeno a tentare di scrivere. La giornata si consuma in una sequela di psicodrammi. Il grande, Gregorio Indro, si chiude a chiave e attacca a suonare con chitarra elettrica un medley di Kiss, Led Zeppelin e Twisted Sister: lo neutralizzo annodandolo alla testiera del letto col filo dell'amplificatore. Torno di sotto. Il piccolo, Tancredi, prende i guantoni da boxe e comincia a menarlo, poi lo libera e si mettono a giocare a pallone in salotto sbriciolando una ceramica, il parquet e un paesaggio in acrilico di un noto contemporaneo. Li chiudo in bagno, intuisco che si stanno arrampicando sull'inferriata tipo Spiderman ma evito di vedere. La serratura delle toilette salta di lì a poco. Nel frattempo, mia moglie inizia una conference call col suo capo (anch'egli in smart working) e un drappello di francesi con accento inglese in un crescendo tonante che pare il coro del Nabucco. Mi rannicchio sulla tastiera. Ma adesso tocca al vicino mettere rumorosamente a ferro e fuoco la consorte. Ignoro le grida d'aiuto attraverso il muro, e il ritorno prepotente dei Kiss al piano di sopra. Però per fare una telefonata con l'ad di una multinazionale sono costretto a chiudermi nella lavanderia, col plaid in testa, alle pendici del garage; mi sembra di essere tornato ai 17 anni quando, di nascosto dei miei, tentavo sussurri erotici via cavo alle fidanzatine. Cerco, affannosamente, di inchiodare i figli davanti a Netflix, ma Internet ha problemi di connessione. Mia moglie continua a litigare in tono baritonale coi francesi. Suonano alla porta: è il postino, mi consegna due cartelle esattoriali. Mi viene da piangere. Disperato, chiamo mia suocera, e con gesti di vergognosa piaggeria cerco di piazzarle i due nani; lei risponde tossicchiando, e sottolinea di essere un'ottantenne con un filino di febbre e di aver incontrato un gruppo di cinesi dal parrucchiere. Capisco il sottotesto e ringrazio, accogliendo i sintomi del mio primo esaurimento nervoso sul lavoro direttamente da casa. Facendo un rapido consuntivo ho prodotto per due ore e mezzo su otto: se non galleggiassi nello smart working mi avrebbero licenziato per giusta causa. Da domani torno a crocefiggermi al cancello della redazione. Se qualche collega mi dice che non sono resiliente lo affogo nell'amuchina… di Francesco Specchia

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