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Ponte Morandi, Vittorio Feltri: "Quelle due volte che Sanculo mi ha salvato la vita"

Giulio Bucchi
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Non ho mai avuto confidenza con i grattacieli e con i ponti, soprattutto questi ultimi mi sembrano dei mostri, quali in effetti sono. Una volta in Spagna, al confine col Portogallo, su uno di essi si formò una lunga fila di veicoli. Al di sotto scorreva un fiume grigio come il piombo. Chiuso in macchina, ebbi una crisi di panico che mi rese ottuso: scesi, lasciando al volante l' autista, corsi veloce quanto un centometrista fino a raggiungere la terra davvero ferma. Pur rendendomi conto di essere stato ridicolo, mi sentii sollevato. Ma questo è niente rispetto a ciò che mi era accaduto sul calare degli anni Settanta. Abitavo presso Treviglio, in una cascina, e ogni giorno con la mia Citroën Ds mi recavo a Milano per lavorare nella redazione politica del Corriere della Sera. Pertanto mi toccava attraversare il fiume Brembo, ovviamente non a nuoto, ma servendomi del ponte di Brembate. Era marzo, tempo di disgelo. Imboccai la strada e sulla prima arcata ebbi la sensazione netta di essere sprofondato alcuni centimetri. Pensai: «Ostia qui va giù tutto!». Invece, con mio grande sollievo, non s' infossò un bel niente e ripresi sereno il mio viaggio. Verso le ore 23, esauriti i miei compiti, mi diressi alla volta di casa percorrendo il solito iter. E arrivai a Brembate, in prossimità del ponte che mi era parso traballante. Dovetti frenare di colpo, davanti a una pattuglia della polizia che agitava palette rosse. Il viadotto era appena crollato. Una vettura con quattro giovani a bordo era stata inghiottita dalle acque burrascose. Tutti morti. Mi tremarono le ginocchia e le budella. Feci una inversione di marcia e transitai su un manufatto romano stretto ma in piedi da un paio di millenni, insensibile ai pesi che sopportava da sempre, costantemente indenne. I terroni capitolini erano più bravi a costruire che non gli ingegneri moderni. Ebbi inoltre la certezza di essere stato protetto da Sanculo, senza il quale non sarei scampato. Altra culattata. Era il 1988. Il Corriere mi inviò in Corea per raccontare i contorni delle Olimpiadi. Ogni mattina seguivo un evento e lo descrivevo. Nel mezzo di Seul scorre un fiume dall' ampio letto e di color fango. Per raggiungere lo stadio dove si svolgevano alcuni giochi era indispensabile prendere un taxi o l' autobus. E si trattava di passare su un lungo ponte che mi sembrò subito poco affidabile. Il senso del dovere mi costrinse a sorvolare sui miei timori e scelsi il mezzo pubblico per risparmiare. Durante il tragitto ebbi una sorta di illuminazione: «Questa passerella del cavolo la dura no, la dura minga, non dura». Poi accantonai il sinistro presagio dandomi del pirla. Le Olimpiadi si chiusero e feci ritorno a Milano. Per alcune settimane detti una occhiata ai giornali, anche stranieri, per sapere cosa succedesse in Corea dove avevo soggiornato oltre un mese. Fui attratto da una notizia. Quel ponte che mi aveva insospettito e atterrito si era sbriciolato e il mio bus era affondato: oltre 40 morti. Un brivido mi paralizzò e ringraziai di nuovo Sanculo. Mi sono così convinto che l' istinto è assai più saggio del nostro cervello. Ci avverte dei pericoli che ci minacciano. Ieri ero a Cortina d' Ampezzo. Lassù, sotto le Dolomiti, all' Hotel Miramonti, il più bello del mondo, venerdì sera avevo tenuto non dico una conferenza bensì una chiacchierata parlando del più e del meno. E l' indomani, dopo aver letto dei rischi che corrono i manufatti in cemento, mi sono infilato in macchina allo scopo di ricondurmi dalle mie parti. Non avete idea del numero di viadotti su cui sono transitato col cuore in gola. Almeno trenta. Tutti issati ad alta quota e spaventosamente galleggianti nel vuoto. Nonostante l' abitacolo fosse fresco grazie all' aria condizionata, ho sudato peggio di un suino. Che angoscia, cari lettori! Non avrò pace nemmeno quando sull' autostrada Milano-Bergamo sarò obbligato a superare le forche caudine di Trezzo, un coso poco rassicurante che collega le due sponde dell' Adda. Forse è giunto il momento che io vada all' ospizio. Dopo la tragedia di Genova non ci si può più spostare da una località all' altra. Non ci hanno rovinato soltanto la vita, ma anche il piacere di vagabondare. di Vittorio Feltri

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