Cerca
Cerca
+

Genio e arte, così Porselli ha infilato le sue ballerine ai piedi delle star

Esplora:

Andrea Tempestini
  • a
  • a
  • a

Papa Giovanni XXIII disse: «Tornando a casa, date una carezza ai vostri bambini e dite: questa è la carezza del Papa». Noi vi diciamo: «Portate da Porselli le vostre bambine». E aggiungiamo, andateci anche voi, donne e uomini. Porselli vanta un punto vendita situato accanto al Teatro alla Scala di Milano e una produzione che va dalle scarpe per ballo spagnolo ai diademi e coprichignon per balletto, dai tutù alle scarpe da mezza punta e da punta a qualsiasi altro complemento immaginabile. Porselli è da sempre il tempio, italiano e non soltanto, delle scarpe e dell'abbigliamento per danza. Di un livello così alto che parte della sua produzione viene sempre più indossata non solo per ballare: sono moltissimi i clienti non danzatori che, volendo acquistare accessori ora di moda, ma appartenenti al vestiario della danza - le scarpe ballerine in primis, e poi scaldamuscoli, scaldacuore e shorts in lana, pantajazz, pantacollant (che la deliziosa signora Vanna Porselli, che abbiamo intervistato, chiama, correttamente, «calzamaglia senza piede») - li acquistano da Porselli. Perché sono coloro che li realizzano da sempre e non esistono una fattura, una cultura, un catalogo e una tradizione italiane di eccellenza equivalente. Porselli nasce nel 1919, quasi cent'anni fa. «Sì, era appena finita la Prima Guerra Mondiale. Mio nonno era un operaio della ditta Nicolini, che realizzava scarpine da ballo. Il titolare si ritirava e mio nonno, con grossi sacrifici, rilevò quella ditta. Si era appena sposato. Il nonno mancò a quarant'anni, e prese le redini sua moglie. Era una cosa abbastanza rara». Rarissima, l'unica donna imprenditrice di quei decenni che mi viene in mente è Rossella O'Hara in Via col Vento, quando dirige la falegnameria del marito. «Sì, forse mia nonna aveva un po' la grinta di Rossella O'Hara». Il negozio accanto alla Scala di Milano arriva nel 1970, ma Porselli quando iniziò a servire la Scala? «Iniziammo subito, negli anni 20, a fornire tutti i teatri italiani. Allora ogni teatro importante aveva il proprio corpo di ballo. Ora, coi tagli di budget, non più. Io credo che gli anni d'oro della danza classica siano andati, purtroppo. La ballerina classica forse ha perso un po' del suo fascino presso le bambine. Ma per far bene il moderno e contemporaneo bisogna avere la base classica. Perché il classico è disciplina. Fino agli anni 80 e 90 c'era molto fervore, anche come spettacoli. C'erano grandissimi nomi nella danza. Ma anche nella critica o nel giornalismo teatrale. Vittorio Ottolenghi era un mito. Rossi, Pasi. Era un altro mondo». Ora non c'è nemmeno più la critica teatrale... Si parla solo della Prima alla Scala, ma non delle altre attività, magari legate al balletto. Ci sono i musical, che coniugano ballo e canto. «Sì, per fortuna... Però i grandi balletti di repertorio non ci sono più, le coreografie moderne non riescono a coinvolgere il grande pubblico. Io, per esempio, non sono molto d'accordo col rimodernamento del repertorio classico, come la Giselle ambientata in un manicomio... Si sperimenta, sì, ma io credo che certe cose dovrebbero essere lasciate come sono». Sono d'accordo. Mi parli ancora dell'esordio Porselli in mano a suo nonno Eugenio. «In quegli anni, il nostro era un lavoro artigianale e specializzato. Per noi è tale anche adesso, ma allora in Italia c'eravamo solo noi e, al mondo, pochi altri. In Inghilterra Gamba e Freed, in Francia Repetto e in America Capezio. Come noi, erano famiglie. Noi esportavamo già allora nel mondo, il negozio di Londra nacque negli anni 30. Ora, noi siamo rimasti gli unici tra questi a conduzione familiare, perché gli altri sono stati assorbiti da holding, compagnie eccetera, probabilmente gli eredi non erano interessati a portare avanti un'attività familiare». Cosa comporta la concorrenza con holding? «Da una parte penalizza, si ha meno disponibilità rispetto a chi fa parte di un gruppo. Ma dall'altra siamo un po' più liberi perché lavoriamo ancora con l'amore e con la passione. Non c'è un capo manager per cui se si fanno cerchioni per auto o scarpe da ballo è la stessa cosa». Voi coltivate un rapporto diretto col cliente, cosa che non si può fare se si va ad acquistare un tutù da Decathlon. «Nei centri commerciali si trovano lavori fatti in serie, noi lavoriamo sulla persona, realizziamo il modellino come vogliono i clienti». Quando accade che la ballerina da danza Porselli diventa ballerina da strada? «Negli anni 50 andavano di moda quei calzoncini alla pescatora, al ginocchio. E c'erano dei clienti che, pur non danzando, acquistavano le nostre scarpine da mezza punta, magari ce le chiedevano colorate, per portarle con quei calzoni lì. O delle clienti che le indossavano sotto le gonne di allora, un po' a palloncino, con sottogonna». Indossavano in strada la mezza punta da danza? «Sì. Che ha la suoletta corta, un po' inadatta a camminare in strada. Così si pensò di adattarle, allungando la suola. Sono sempre quelle da mezza punta da danza, con la numerazione da danza, con forma a biscotto e non forma destra e sinistra, ma con la suoletta lunga. Poi è nata una ballerina che è più scarpina. Con la forma destra e sinistra, la numerazione da strada, una suola e un tacco da mezzo centimetro». Quindi queste prime due versioni da strada della ballerina sono nate negli anni di Saint Tropez e Portofino, quando si indossavano ciabattine Capri e ballerine, appunto. «Sì, indossavano le nostre ballerine anche in barca. Poi abbiamo realizzato anche un modello con un po' di tacco. Quattro o sei centimetri». Possiamo pensare che Brigitte Bardot, che portava le ballerine anche in E Dio creò la donna del 1956, ne abbia indossata qualcuna Porselli? «Sì sì, così si dice». Insomma, è dagli anni 50 che voi avete portato in strada le ballerine da danza. In questi decenni la modalità di produzione è cambiata? «No. La lavorazione è rimasta artigianale come allora, anche perché le nostre scarpe sono fatte in modo particolare. Sono tutte cucite a rovescio. Per i materiali, nel tempo si cerca di restare all'avanguardia, certo, ma la lavorazione utilizza i criteri di allora. Niente è incollato, tutto è cucito. Negli anni 20 cucivano addirittura a mano, ora si utilizza la macchina per cucire, ma non è che uno metta dentro tomaia e suola e dall'altra parte escano le scarpe... È sempre l'uomo che la guida, stando attento al punto eccetera». Qualcuno vi chiede modifiche personalizzate? «Sì, certo. Si può giocare con l'altezza della mascherina. Oppure bordare di colore diverso rispetto alla tonalità della pelle. O fare la punta di altro colore, come le Chanel. O farle in suede. Mettendo insieme colori e altre varianti, lei può avere una scarpa che non avrà nessun altro, fatta proprio per lei». Clienti vip? «L'attrice che interpretava Hermione in Harry Potter». Emma Watson? «Sì. Ci contattò il suo agente per delle ballerine da strada. Doveva venire a Venezia e girando voleva, forse per comodità, fra una foto e l'altra coi tacchi, avere delle scarpe normali». E italiane? «Vanessa Incontrada, Victoria Cabello, Daria Bignardi, Lorella Cuccarini, Ornella Vanoni, le ragazze Borromeo, le ragazze di Trussardi. Patty Pravo, che compra le ballerine ma è nostra cliente anche per l'abbigliamento. Belén in Italia's Got Talent fece tanto furore con quel vestito di Daniele Carlotta che realizzammo noi, coi tessuti di Carlotta. È il nostro modello da danza “accademico una spalla, una gamba e mezzo gonnellino”». Oltre al negozio londinese, dove esportate all'estero? «In Europa, America, Giappone, Emirati Arabi. La danza è il nostro amore, ma ci stiamo un po' allargando in questo nuovo mercato. Anche se non c'è una produzione da danza e una da strada. Adattiamo alla strada quella da danza». Mi permetta, Vanna, è questo che rende unica la vostra produzione: nessuna ballerina di stilista può essere più comoda di una che nasce per ballare e calza il piede come un guanto. Cosa sostanzia l'anima di un imprenditore? «Passione e orgoglio per il proprio lavoro, coinvolgimento e amore per quel che si fa. Anche nei momenti di sconforto». intervista di Gemma Gaetani

Dai blog