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Facci: dopo le elezioni, Ingroia ha perso anche la faccia

Non autorizzato l'incarico di Riscossione Sicilia, il Csm trasferisce il pm ad Aosta. Lui aveva detto: "Se trombato, mi occuperò di divorzi". Ora smentisce se stesso...

Giulio Bucchi
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di Filippo Facci La vera notizia sarebbe che non c'è notizia, nel senso che un magistrato italiano è stato sottoposto alle regole previste nei modi previsti: ma è accaduto al magistrato Antonio Ingroia, sicché la notizia è che la regola ha riconquistato il primato sull'eccezione che Ingroia ha rappresentato sempre. In pratica il Csm l'ha trasferito alla procura di Aosta come previsto (19 voti a favore, 7 astenuti) che è l'unica circoscrizione in cui non si era candidato alle politiche, l'unica dove poteva riprendere subito a fare il magistrato; in teoria il Csm l'ha pure favorito, perché da principio era previsto che ad Aosta rivestisse le funzioni di giudice e non di procuratore come invece è stato indicato: ma un'iniziativa di Magistratura indipendente, la corrente più moderata delle toghe, aveva presentato una proposta alternativa che chiedeva di destinare Ingroia non al tribunale ma alla Procura, dove risultava un posto scoperto. Tutto regolare, insomma: quindi una beffa, perché è andato tutto come doveva e Ingroia evidentemente non ci contava. Non era il solo a pensare che avrebbe costituito un «caso» come gli è capitato sempre: l'ormai ex procuratore aggiunto di Palermo aveva manifestato un certo sprezzo circa l'ipotesi di passare appunto alla giudicante di Aosta (non voleva fare il «pensionato d'oro» in una sede in cui i giudici sono effettivamente in sovrannumero) e contava di essere ascoltato dal Csm prima che una decisione fosse presa, così da poter sperare di restare in Sicilia a guidare un ente pubblico o qualcosa del genere. Una posizione che aveva sollevato qualche malumore anche ad Aosta: «Il lavoro del magistrato», faceva comunque sapere Marilinda Mineccia, procuratore capo d'Aosta, «dovunque fatto è di grande utilità, interessante e, spero, utile». Ben mostrava di comprenderlo lo stesso Ingroia, che il 15 gennaio scorso, alla trasmissione Coffee Break (La7) di fronte all'ipotesi di occuparsi nuovamente di mafia, rispondeva che no, ci sono altri campi, tipo «liti condominiali», «incidenti stradali», «separazioni» e cose così. Battute? Non sembrava. Il 27 giugno precedente, del resto, aveva detto che una sua discesa in politica sarebbe stata «irreversibile». Poi abbiamo scoperto che è reversibile. Una nebbiosità quasi compiaciuta che il Csm potrebbe non aver gradito, diciamo così: prima le indagini a Palermo, poi il flash in Guatemala dopo infiniti rinvii, poi la fondazione di un partito politico dopo altrettanti rinvii, poi la candidatura a premier, poi il plof, poi la richiesta di poter svolgere un incarico extragiudiziario che con la magistratura non c'entra nulla - l'esattore di Crocetta - e il tutto sempre con un occhio a un partito che intanto è sempre lì, Ingroia gli ha pure cambiato nome.  Forse è per questo che il Csm, per usare parole attribuite a Ingroia dal Corriere della Sera, ha dimostrato «un palese disprezzo per l'esperienza maturata in oltre vent'anni di indagini antimafia». Forse sperava in un ruolo nella Procura nazionale, di certo confidava in un po' di elasticità in più per il suo «caso» perpetuo. Il dettaglio è che la decisione era già stata presa, dunque ha prevalso la regola: «C'era un orientamento contrario a un ritorno della pratica in Commissione e a un'audizione in plenum», ha spiegato Michele Vietti, vicepresidente del Csm. Mercoledì, del resto, lo stesso Csm (Terza commissione) aveva già detto un secco «no» all'ipotesi che Ingroia potesse ottenere l'aspettativa e il collocamento fuori ruolo per andare a presiedere Riscossione Sicilia spa, la società regionale che riscuote le tasse: in casi analoghi il Csm si era già detto sfavorevole senza eccezioni (altri magistrati infatti avevano ambito a incarichi amministrativi e dirigenziali nelle Asl, presso delle Authority o all'Agenzia delle Entrate) e quindi ha prevalso la regola anche qui, eventualità che ieri Ingroia ha giudicato «punitiva», succube di un «approccio burocratico»  da parte del parlamentino dei magistrati, che non non «valorizza» la sua professionalità. Un copione che forse Ingroia aveva già scritto: secondo il Corriere della Sera il magistrato aveva parlato di «discriminazione politica» prima ancora che il Csm si esprimesse. Punizione, ritorsione, vendetta, discriminazione? Forse è stata soltanto una risposta, formalmente ineccepibile, a un atteggiamento che rappresenta un caso limite, la classica goccia che ha fatto debordare il vaso come la stessa magistratura aveva pure debordato per decenni. Un monito. Come a dire: 'mo basta.   In affetti non si era mai visto un magistrato con un «segretario organizzativo» (lo stesso del mago Silvan e di Rita Pavone) per organizzare incontri, dibattiti, presentazioni di libri e comparsate tv. Non si era mai visto Ingroia, più che altro.   Ingroia che ha impostato una correttissima carriera «antimafia» paragonandosi di continuo a Paolo Borsellino, che pure era di destra. Ingroia che progressivamente è divenuto un personaggio per meriti catodici mentre inquisiva coloro che la mafia l'hanno combattuta per davvero, tipo il capitano Ultimo o il generale Mario Mori. Ingroia che non sta mai zitto, spara una dichiarazione via l'altra, si fa riprendere dal Csm, fa il prezzemolino televisivo, arringa le folle ai congressi di partito, scrive un libro via l'altro, mette in piedi un mastodontico procedimento storico-giudiziario su un'inafferrabile «trattativa» dove tira in ballo due o tre repubbliche e produce reati anziché perseguirli (le presunte false testimonianze) e soprattutto tira in ballo il capo dello Stato, costringendo la Corte Costituzionale a pronunciarsi sull'opportunità di intercettare il Quirinale su faccende comunque irrilevanti. Ingroia che poi, quando la sua inchiesta è pronta per il rinvio a giudizio, parte per il Guatemala ma tira il pacco anche a loro, continuando a rinviare la partenza. Ingroia che poi finalmente parte, e però, una volta giunto, comincia a rilasciare dichiarazioni rivolte all'Italia, si collega via satellite, apre un blog, un diario, torna periodicamente per appuntamenti di matrice politica (pur negando ogni coinvolgimento, sempre ambiguamente) e ancora pubblica un altro libro, dice che Forza Italia è di matrice mafiosa, si congratula con Bersani perché vincerà le elezioni - sostiene - e, dopo aver scassato l'anima all'intero Pianeta col suo esodo in terre lontane, piazza un pacco intercontinentale direttamente all'Onu: dopo meno di un mese e mezzo in Guatemala chiede l'aspettativa da magistrato e annuncia che il 21 dicembre spiegherà il suo programma politico in un'assemblea al Capranica di Roma, alleati Di Pietro e De Magistris più altri ex magistrati. L'incontro si chiama «Io ci sto», mentre in Guatemala non ci sta più.  E va tutto benissimo: basta che Antonio Ingroia non lo faccia da magistrato della Repubblica Italiana. Altrimenti faccia quello: il magistrato della Repubblica Italiana, nazione che va da Palermo sino ad Aosta. Questo, forse, ha voluto dire il Consiglio Superiore della Magistratura. O ci piace crederlo.

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