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"La toga Esposito? Fregato perché voleva fare il vip. Voleva finire in tv..."

Giampaolo Pansa e Antonio Esposito

Il commento. Il giudice che ha condannato Berlusconi è stato tradito dall'eccessivo protagonismo. Vittima dell'illusione per cui se non finisci sui media non esisti

Andrea Tempestini
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Ieri mattina il conduttore di Omnibus, talk show della Sette, ha rivolto la domanda delle domande ad Alessandro Barbano, il direttore del Mattino di Napoli. È stato Barbano a pubblicare l'intervista suicida del giudice Antonio Esposito, diventato famoso nel mondo per aver letto in Cassazione, e in diretta televisiva, la sentenza di condanna per Silvio Berlusconi. Il conduttore di Omnibus gli ha chiesto: «Perché il dottor Esposito si è fatto intervistare?». La risposta di Barbano mi ha colpito: «Per ebbrezza mediatica».  Quelle tre parole dipingono meglio di lunghi discorsi il vizio assurdo che va dilagando in Italia. L'ebbrezza può essere provocata dal vino o dalla droga. Ma nel caso che domina sulle prime pagine dei giornali, e sta in testa ai tigì, l'origine è un'altra, ben più invasiva: è il potere dei media, sempre più assoluto, quasi totalitario.  Può sembrare un paradosso. I media cartacei sono in crisi dappertutto, anche negli Stati Uniti, lo dimostra la vendita del Washington Post. La pubblicità è in calo, i lettori pure. Anche la tivù è in affanno. Gli spot rendono sempre di meno. Persino un colosso come la Rai, che pure ha il grande salvagente del canone obbligatorio, sembra arrivato alla canna del gas. Eppure nell'immaginario collettivo la televisione resta l'unico potere in grado di certificare l'esistenza di un personaggio, di uno sport, di una scoperta scientifica, di un film, di un libro.  Lo vedo anche da quanto capita a me. A volte vengo fermato per strada da un signore o una signora che mi dice: «Lei è il dottor…Non ricordo il suo nome, ma la faccia sì, l'ho vista in televisione!». Succede che un amico mi chieda: «Giampaolo sei ammalato?» «Grazie a Dio no, perché me lo domandi ?». «Perché è da un pezzo che non vai in tivù, nessuna intervista, niente comparsate, neppure nel più sfigato dei talk show!».  Un tempo persino i leader politici si offrivano di rado alle telecamere. Volete un esempio? Enrico Berlinguer, il segretario generale del Pci. Andare in tivù gli procurava l'orticaria. Quando nel giugno 1976 ci andò per obbligo, poiché era il momento di Tribuna elettorale, il suo arrivo negli studi Rai di via Teulada fu evento di quelli rari. Nel cortile lo aspettava una folla mai vista. Certo, anche in Rai i militanti comunisti erano molti, ma ad attenderlo si vedevano pure tanti i curiosi, radunati per assistere a uno spettacolo che si sarebbe ripetuto chissà quando.  L'irrompere sulla scena di Berlusconi ha cambiato tutto. Anche i politici più distratti si sono accorti che esistere per la tivù significava esistere per l'Italia e dunque per i loro elettori. Da allora pure le comparse della Casta, di solito parlamentari di ultima fila, invadono tutti i giorni i teleschermi.  Oggi si è arrivati all'assurdo che signore e signori nessuno, spesso mezze calzette, passano ore e ore negli studi televisivi. Saltando da una trasmissione all'altra, senza un minimo di pudore. Lo stesso fa un circo di giornalisti che non cambiano mai e nell'arco di ventiquattro ore  partecipano a due, tre, quattro talk show.  Perché lo fanno? La risposta di Barbano, un direttore capace e astuto, è la più valida: l'ebbrezza mediatica è un pusher potente, ti spinge alla droga e al tempo stesso te la fornisce. È questo virus ad aver condotto il giudice Esposito a commettere l'errore della propria vita. Uno svarione che gli resterà appiccicato fin che scampa.  Lo scrivo con molto rispetto. Sono un vecchio signore cresciuto in un'Italia che riteneva i magistrati un ordine quasi divino, creato da Iddio perché difendesse gli umili contro le arroganze dei potenti. Mio padre Ernesto, messo a faticare sui campi quando aveva appena nove anni, sperava che il Giampa, unico figlio maschio, diventasse un giudice oppure, in subordine, un funzionario del Parlamento. Quando gli rivelai che volevo fare il giornalista, ci rimase male.  Per questo oggi osservo con delusione la caduta rovinosa del dottor Antonio Esposito. Ho sempre ritenuto che un magistrato settantenne, arrivato al vertice della carriera come presidente di sezione della Cassazione, fosse diventato impermeabile a qualsiasi tipo di errore, soprattutto a quelli di stile. Mi dicevo: non può sbagliare, essendo l'ultima istanza di un cittadino che chiede giustizia. Dunque non ha il diritto di commettere passi falsi, tanto meno per una questione che lo coinvolge.   Purtroppo per lui, e anche per noi, il dottor Esposito l'ha combinata grossa, salvo che il prosieguo delle indagini non accerti il contrario. E la sta già pagando cara. Se la mia faccia fosse comparsa sulla prima pagina di un quotidiano sovrastata da un titolo enorme, «Il bugiardo», non avrei più il coraggio di uscire di casa, neppure se mi ritenessi innocente. Ma come diceva mia nonna, mai pretendere di insegnare ai gatti in che modo si superano i muri.  Temo che la tanto invocata riforma della giustizia non andrà in porto. Ma se accadesse, vorrei vedere che contiene una nuova norma sacrosanta. Dovrebbe recitare così: per tutti i magistrati in attività esiste il divieto assoluto di dare interviste, di apparire in tivù, e già che ci siamo di scrivere articoli destinati ai giornali. Questo è un altro vizio che sta dilagando. Con risultati grotteschi: il magistrato editorialista, un esemplare sempre più diffuso, di solito è una schiappa che induce una noia profonda negli eventuali lettori.  A ciascuno il suo mestiere. E per tutti, toghe comprese, una regola d'oro: chi sbaglia, paga. Nelle democrazie degne di questo nome, nessuno è considerato infallibile. Pagano i medici se spediscono all'altro mondo un paziente, per un errore che poteva essere evitato. Perché non dovrebbero pagare i magistrati se, sbagliando, mandano in galera un cristiano innocente?  di Giampaolo Pansa

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