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Altro che trash, se gli intellettuali de Il Mulino scoprono Tommaso Labranca

Tommaso Labranca

Francesco Specchia
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“Trash, un cazzo…”. L’espressione migliore per strappare Tommaso Labranca, indimenticata firma culturale di Libero, allo stereotipo del rovistatore di spazzatura nazionalpopolare (“l’uomo che ha inventato il coattismo!”) in cui lo incasellavano, be’, è stata questa del critico musicale Michele Monina, presente come molti di noi al funerale di Tommaso l’estate di quattro anni fa.

Il mondo letterario aveva avvolto, anche da morto, Labranca nella bandiera del trash dati i suoi successi sulla cultura di massa -Andy Warhol era un coatto, L’estasi del pecoreccio, Chaltron Hescon su tutti-; ma Monina, nell’epicedio all’amico, s’era soffermato sull’attitudine labranchiana a ritrovarsi irrequieto nomade in tutti i territori delle arti e delle lettere. Per me, Labranca è sempre stato, per indole e stile, una sorta di mix tra Luciano Bianciardi e Truman Capote. Un talento invincibile. Non riuscivi a stargli dietro. Passava dalle biografie di Warhol –di cui era uno dei massimi esperti mondiali- a quelle sui miti del pop che gli assicuravano la pagnotta; inventava riviste d’arte assieme a Luca Rossi per conto di editori del Canton Ticino; scriveva testi per la tv, Rai e La7. E aveva tradotto i migliori autori americani contemporanei –da Lisa Goldstein a Oliver James a Flocker Michael che introdusse la teoria sociale del Metrosexual- ; e prodotto le miglior opere di narrativa mordi-e fuggi come ll fagiano Jonathan Livingston. Manifesto contro la New Age, o Kaori non sei unica. La prima antologia di letteratura spot. Una mente errabonda. Eppure, all’indomani della dipartita, negli epitaffi sui principali giornaloni italiani venne descritto sempre come l’archeologo del trash: geniale ma incompreso, onnivoro ma incompleto, facondo ma con una tendenza all’autodistruzione. Forse in questo stesso equivoco è caduto Claudio Giunta che ha ne scritto l’unica biografia, Le alternative non esistono- La vita e le opere di Tommaso Labranca (Il Mulino, pp.256, euro 23), e Dio e noi tutti gliene rendiamo merito.

Epperò, nell’ossessione per un personaggio all’apparenza felliniano e blasè al tempo stesso- girocollo nero, borselli a tracolla molto anni 8o, occhiale pesante in contrasto coi pensieri lievi-, il biografo ha sfruculiato dettagli oscuri tralasciando un po’ la luce che Tommaso lasciva promanare dai suoi pensieri, opere e soprattutto omissioni. Ma sì, certo è utile conoscere di Labranca le umili origini talora trasformate in frustrazioni: “Il padre, oltre a fare il gommista, si è messo a lavorare a una pompa di benzina; la madre ha trovato lavoro come baby-sitter. Nel corso della sua vita Labranca non ha veramente cambiato classe sociale. Ha sempre vissuto a Pantigliate, dove i suoi genitori si erano trasferiti negli anni Ottanta. Non è nemmeno diventato un intellettuale pubblico”, scrive Giunta. Che poi si chiede “ma è morto a 54 anni per infarto o si è suicidato?”, e un po’ chissenefrega; e ritira fuori la vecchia polemica dei suoi finti amici di sinistra che, negli ultimi anni, tendevano ad evitarlo perché scriveva su Libero “ma che ovviamente non basta a liquidarlo come reazionario destrorso. A dispetto dei toni spesso apocalittici, non pensava affatto – come i néo-réac a cui ogni tanto lo si assimila, a torto – che la civiltà occidentale fosse al tramonto, distrutta dal neoliberismo e/o dalla secolarizzazione. Era del parere che le cose andassero a rotoli, in Italia, soprattutto per colpa degli italiani”. E questo è corretto. Epperò questa cosa che Libero lo usasse come “censore delle ipocrisie della sinistra” è un falso storico. Tommaso ha sempre avuto mano libera su tutto. Al punto che qui era tornato al suo vecchio pallino, la critica d’arte. Lo ribadisco: Labranca era il più veloce tra quelli bravi e il più bravo fra quelli veloci. Naturalmente, quando lo si inviava a recensire una mostra, curatori e galleristi velavano lo sguardo di fiero terrore; e lui – autore pensoso a ritmo annuale per Einaudi e a scansione settimanale per l’Anima mia di Fabio Fazio- mandava, nei tempi ristrettissimi del quotidiano, il pezzo perfetto. A questi passaggi, al suo essere un reietto a sinistra, molti degli “amici” intellettuali che dirigevano riviste, creavano programmi tv, o erano responsabili di collane editoriali non hanno mai accennato (né l’hanno mai aiutato). Epperò, ha ragione Giunta quando scrive che Tommaso misurava giorno per giorno come un sismografo gli affronti, le umiliazioni ma anche “i piccoli progressi della sua notorietà”. La sua vita agra è stata quella, appunto, di un Bianciardi riaggiornato. Anche, sentendo questa definizione, gli verrebbe l’itterizia; e magari, per la paranoia, indosserebbe il vestito da coniglio che sfoderava alle feste. Labranca era fieramente stanziale. Il suo mondo immaginario passava dai grandi autori russi ai concerti di David Bowie, alla factory del Greenwitch Village anni 80; ma lo potevi geolocalizzare, magari accanto all’amica Orietta Berti, in un mondo piccolo esclusivamente compreso nel triangolo Milano- Lugano-Pantigliate paese/ sobborgo al cui codice di avviamento postale aveva dedicato il nome della sua piccola casa editrice.

Nonostante qualche dimenticanza e qualche prospettiva inesatta, la biografia di Tommaso Labranca, l’irregolare degli irregolari, è un lascito necessario per la posterità. Vi sono dieci sue righe illuminanti di Tommaso, stimolato in un’intervista intorno ad un capitolo sulle ipocrisie italiane di un libro che non riuscì mai a scrivere: “Un capitolo sulla società civile, sugli indignati, su coloro che insultano la nazione che li mantiene grazie alle pensioni dei genitori presso cui vivono ancora a 40 anni, su quelli che sono andati a fare la fame all’estero convinti di rientrare così nella fuga dei cervelli. Insomma, tutta la fuffa anonima che passa la giornata al computer nella patetica illusione di essere intelligente, progressista, antagonista”. Trash, un cazzo…

 

 

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