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Tutti i mondi del matto di talento Philip K. Dick riscoperti nell'era del Covid19

 P.K. Dick sulla copertina di Linus

Dalle serie tv alle biografie al dossier su Linus: vita, miracoli, droga e divinità dell'uomo che anticipò la Beat Generation

Francesco Specchia
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Non so se lo shining, il luccichio, l’intuizione d’inciampare in una diversa realtà riverberò, per lui, in quel 20 aprile 1962.

 Philip Kindred Dick, allora, era in una pausa- sigaretta dell’ennesimo romanzo scritto in trance di anfetamine, La svastica sul sole, il suo unico vero successo da vivente. La sua mente affondava nella partitura del Messiah di Handel in sottofondo; la maschera antigas del padre, fante alle Ardenne, lo osservava, inquietante, dal muro; e la macchina per scrivere parlava da sola, era tutto un flusso di coscienza epilettico alla Joyce, il suo autore-feticcio. Dick guardò la nuvolaglia che intasava il cielo di Point Reys Station, il paesello californiano dal quale si schiodava raramente; e dentro vi vide il “nulla dentro una faccia metallica e crudele con gli occhi come delle scanalature vuote” (copyright Gabriele Frasca). Io non lo so. E se, invece, quella sensazione di vivere nei sogni di qualcun altro -nella fattispecie, della sorellina gemella morta, Jane- avesse avvolto Dick nel marzo del ’74? Cioè quando, convinto di essere stato invaso da un’entità aliena, scodellò la sua Trilogia di Valis che lo avvicinò alla dottrina gnostica e, al contempo ad una banda di scrittori strafatti e paranoidi che si trasformarono nella Beat Generation? Questo io non lo so. Nessuno sa quale fu il momento che lo rese un genio. Però, per certo, so che l’universo di Dick fatto di mondi paralleli, paradossi temporali, meccanica quantistica e androidi che sognano pecore elettriche al largo dei bastioni di Orione, be’, ha spalancato le sue porte nei giorni del Covid19. Dick, di questi tempi, è ovunque. E’ andata a ruba la biografia Phil K. -Una vita da Philip K. Dick di Laurent Queyssi e Mauro Marchesi (Magic Press, pp 146 , euro 15). Uno dei suoi racconti più perturbanti, Total Recall- Atto di forza, da cui si trassero due film di successo, compie 30 anni e i suoi festeggiamenti in tutto il mondo hanno un che d’innaturale. Sky Arte ha dedicato ai demoni dello scrittore una puntata del programma Inseparabili, laddove il racconto parte da una tomba nel Colorado, quella appunto della sorella Jane, sulla cui lapide i genitori fanno incidere anche una targa vuota, “uno spazio per accogliere il nome di Philip al momento della sua morte”. Eppoi c’è stata Linus. La “rivista di fumetti e altro”  completamente dedicata all’ “Universo fuor di sesto” di Dick, “il Borges della letteratura di genere, il Kafka dei grandi meccanismi” come scrive il suo direttore Igort che ne propone una serie di racconti illustrati ispirati alle opere distopiche dell’autore di Cacciatore di Androidi, Ubik, I simulacri, Le tre stimmate di Palmer Eldricht, Mary e il gigante, Minority Report, Un oscuro scrutare. Racconti - gioiellini firmati da autori come Sergio Ponchione, Sergio Algozzino, Josè Munoz, Sergio Brancato.  Eppoi c’è la tv. Ho passato – e non sono l’unico- il periodo del lockdown su Amazon Prime, ad ingollare pop corn e tutte e quattro le serie televisive tratte The Man in The Hight Castle -L’uomo nell’alto castello (La svastica sul sole, appunto pubblicata in Italia per prima da Fanucci). Che, oltre ad essere un cult intergenerazionale, è un capolavoro assoluto della letteratura ucronica, del "cosa sarebbe successo se...". La trama si sviluppa su una realtà parallela, l’incubo peggiore della Storia: dato l’assassinio del presidente Roosevelt e l’America sprofondata nella Depressione, gli Stati Uniti, persa la 2° guerra mondiale, non esistono più. Washington è evaporata sotto la bomba atomica nazista, e il territorio è spartito tra Germania/Grande Reich nazista nella zona est e il Giappone a ovest. Un capolavoro, da cui, tra l’altro, Philip Roth trasse ispirazione per un altro capolavoro, il Complotto contro l’America.

Ma, tra le serie tv ecco sbocciare anche Dick’s Electric Dreams; e pure le produzioni non dickiane ma d’innegabile ispirazione dickiana: Black Mirror, Mister Robot, Westworld, Battlestar Galactica. E sono sottoprodotti di Dick perfino i cult fantascientifici Alien e Matrix e Truman Show, che sorprendentemente, riprendono il tema del contagio, del corpo che si trasforma, della realtà che vive nella finzione che sogna la realtà. A quei tempi gli spauracchi erano l’incubo nucleare e l’Aids, oggi c’è il Coronavirus, ma la sostanza non cambia. La realtà, invece, cambia di continuo. Io sono vivo e voi siete morti, era il titolo della biografia di Dick scritta, anni fa, da Emmanuel Carrère che ne scavava l’esistenza cadenzata da ipergrafia patologica e da una concezione non assoluta del tempo e dello spazio. Tra l’altro mi ha sempre impressionato questa storia della scrittura compulsiva e ipnotica –“le parole mi escono da sole, dalle mani”- raccolta in un corpus di 42 romanzi, centinai di racconti, lettere e  pensieri sparsi. Dick procedeva per visioni, e picchiava sui tasti della Underwood a ritmo di jazz, ne manovrava il carrello a strappi come fosse il cambio di una spider; e non rileggeva quasi mai ciò che gettava sulla pagina. La droga, come per molti autori della sua epoca, era un buon punto di partenza. Diceva: “Io avevo una moglie molto costosa, bambini molto costosi, scrivevo come un matto e l’unica maniera per riuscire a farlo era prendere le anfetamine che mi ero fatto prescrivere. Buttavo giù sessanta pagine al giorno”. La sua Esegesi arriva a contarne 8000, di pagine; credo non le avesse mai lette tutte nemmeno lui.

La droga aiutava, ma il dolore e i drammi personali sublimavano. Dick visse all’interno di famiglie infelici che confinavano le proprie ambizioni nei sobborghi dell'America rurale, era afflitto da disturbi psicosomatici e dall’incubo di essere perseguitato ora dagli alieni ora dall’Fbi. Era, in pratica, convinto di poter vedere il futuro in bilico da un asse temporale ortogonale sulla quale scivolavano i pensieri di Dio. In più, viveva in un perenne complesso d’inferiorità verso colleghi come Kurt Vonnegut che erano riusciti a svincolarsi dall’angusto perimetro della letteratura di fantascienza per trasformarsi in scrittori completi e amati dalla critica. Dick affermava: “Non ho mai pensato che la fantascienza avesse minor valore che la letteratura alta. C’era quell’aspetto misterioso dell’universo che poteva essere trattato attraverso di essa. Era un mondo metafisico”. Ma, ovviamente, mentiva. La vera verità è che -come Raymond Carver e Stephen King i quali, però, esplosero in vita- Dick, con le sue storie onirico-cosmiche riusciva a malapena a sbarcare il lunario. Il successo mondiale, Dick l’ottenne solo nell’estate del 1982 quando dal suo Cacciatore di androidi il regista Ridley Scott ottenne Blade Runner; peccato che lui fosse già morto da un paio di mesi causa infarto. Lo scrittore, come in una poesia del suo Flaubert, venne appunto seppellito accanto alla tomba della gemella che l’ossessionò per tutta la vita. Forse sono proprio le sue incertezze con le quali oggi molti s’identificano, che rendono così attuali gli scintillii delle maschere metalliche nei cieli della California…

 

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