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Ma George Orwell era di destra o di sinistra? Una querelle letteraria

 Da "1984" graphic novel edita da Ferrogallico

A sinistra dicono fosse antifascista, a destra anticomunista. Ma in realtà lo scrittore era contro le classi sociali e i totalitarismi. Lo scrive lui stesso..

Francesco Specchia
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Ma Eric Arthur Blair alias George Orwell era di destra o di sinistra? Shakerate le ideologie, valicati i dogmi, globalizzati i pensieri, oggi la domanda assume un fascino -diciamo-vintage.

Eppure, accade che in un bel libro di Marco SommarivaAppropriazione indebita (Ventizeronovanta, euro 15 pp 110) con testi di Erri De Luca che non è esattamente di destra, Orwell venga incasellato a sinistra in quanto antifascista, citando un passo dell’orwelliano La strada di Wigan Pier: “E’ qualcosa di peggio che inutile scartare il fascismo come “sadismo collettivo” e “di massa” o qualche altra facile etichetta del genere. Se sostenete che è soltanto un’aberrazione che in breve tempo si esaurirà da sola, vi cullate in un sogno dal quale vi desterete nel momento in cui qualcuno vi darà una manganellata in testa”. Di tutta risposta, l’editrice destrissima Ferrogallico di Marco Carucci scippa a Mondadori 1984 (pp 242, euro 25) versione graphic novel disegnata da Xavier Coste e best seller in Francia; un libro deliberatamente scritto da Orwell contro la Russia, o meglio una Russia futura, diventata una delle poche superpotenze rimaste a dominare il mondo prevaricando i diritti individuali e manipolando la realtà storica. E, in questo 1984, tra tavole straordinarie, immersioni in disegni lividi e policrome che ricordano alcune opere di Lorenzo Mattotti, Ferrogallico ci piazza dentro la prefazione di Stefano Zecchi, docente di estetica non esattamente di sinistra. Il quale vede nell’apologo di Orwell qualcosa di un po’ diverso dal solito: “Non leggo in 1984 messaggi che avvertono che ammoniscono, che intendono mettere in guardia dai pericoli delle dittature, dal controllo psicologico dell’individuo attraverso la comunicazione, la tecnocrazia dell’informazione. Piuttosto ci leggo una lucida, drammatica descrizione di un’umanità differente e vile disposta a consegnare la propria persona a chiunque pur di liberarsi dal peso delle responsabilità di scegliere e decidere con la propria testa”. Cioè, per Zecchi il messaggio dell’autore inglese è contro un’umanità “indifferente e vile” che probabilmente quella dittatura se la merita. Un concetto molto conservative, conservatore. Sicché, si riaccende il dibattito sull’ideologia variabile dell’autore. Ma quel che era George Orwell, con uno straordinario tempismo, lo spiega Orwell stesso in Un’autobiografia involontaria (Rizzoli Bur, pp 576, euro 10) una raccolta di racconti, articoli, lettere e stralci di diario e qualche tranche de vie inedita, in cui lo scrittore simbolo per generazioni di tribù politiche e letterarie racconta definitivamente se stesso. E, sfogliando quelle pagine, ritroviamo l’Orwell ragazzino, terrorizzato tra le mura di una severissima prep school, il giornalista coraggioso che dorme nelle capanne coi senzatetto londinesi per raccontare la raccolta del luppolo, il malato in sanatorio sull’isola di Jura che si interroga sul valore di ciò che ha scritto. Soprattutto vi emergono i luoghi che lo hanno segnato – la Catalogna, la Birmania, Marrakesh- e i temi a lui più cari. Tra questi, una feroce avversione per la sinistra intellettuale, che Orwell matura dopo aver vissuto in prima linea, da comunista, la guerra di Spagna; e, proprio dalla trincea realizza che i comunisti sono peggio di Francisco Franco. E quindi scrive Omaggio alla Catalogna, una delle sue opere migliori. In cui, come si legge nella suddetta autobiografia curata da Enzo Giachino, “i colpevoli di turno non sono più gli imbelli laburisti, ma i fellow-travellers, gli intellettuali che simpatizzano per il comunismo e Orwell brutalmente battezza pansy left, finocchi comunisti, giudicandoli menzogneri e pericolosi. Essi hanno accettato in pieno la propaganda imposta da Mosca e, senza curarsi di controllare l’attendibilità delle informazioni che ricevono, dichiarano traditori, quinte colonne di Franco, gli anarchici e tutti i combattenti antifascisti che non siano di stretta osservanza comunista”. Aggiungeteci che a marzo 1949 Orwell riceve la visita di Celia Kirwan, cognata di Arthur Koestler, funzionaria dell’Information Research Department, sezione del Foreign Office preposta a contrastare la propaganda sovietica, con cui lo scrittore condivide una lista di 35 “criptocomunisti” da arruolare nelle istituzioni inglesi. E otterrete che l’anticomunismo viscerale di Orwell non è affatto incompatibile con il suo antifascismo inteso come antitotalitarismo, un’idea in cui, se si vuole, risuonano lontani echi di Nolte e De Felice.  Cioè l’idea che i mali del mondo derivino dalla tirannia delle caste sociali, laddove soprattutto i movimenti di sinistra rimangono invischiati e impotenti. Orwell prova, così un’avversione totale per il socialismo -il laburismo inglese- che fallisce perché in realtà non vuole abolire quei privilegi che dovrebbe combattere. “Ogni teoria rivoluzionaria deriva parte della sua forza dalla segreta convinzione che nulla potrà mai venire mutato”, rimarca Orwell, esaltando il concetto di Decency che “vuol dire onestà, coraggio, controllo, spirituale eleganza, vera nobiltà” scomparsa a sinistra.

Altro esempio. Dopo aver assistito ad un comizio comunista sulla piazza del mercato, lo giudica “molto deludente. il difetto principale di tutti questi oratori comunisti è che, invece di usare il gergo del popolo, snocciolano frasi tremendamente lunghe, piene di “malgrado”, “con tutto ciò”, “sia come si vuole” ecc., nello stile di un articolo di giornale, anche se parlano sempre con un forte accento dialettale, in questo caso l’accento dello Yorkshire. Penso che ricevano dei discorsi già fatti, che devono imparare a memoria”. 

E sugli operai di cui, da cronista al Tribune e alla Bbc descrisse le misere condizioni, alla fine arriva a sentenziare: “La prospettiva di una vittoria hitleriana sorride ai molto ricchi, ai comunisti, ai seguaci di Mosley, ai pacifisti e a certe sezioni dei cattolici. S’aggiunga che, se le cose andassero male in politica interna, la sezione più povera degli operai potrebbe assumere un atteggiamento disfattista, anche se non attivamente filofascista”. Orwell, in soldoni, odiava ogni colorazione di dittatura; la differenza tra quella di destra e sinistra è che la seconda, ai suoi tempi era ancora molto in voga…

 

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