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Pro e contro il "Southworking"- "Il Sud non sia il dormitorio del nord"

Rossella Cappetta

La querelle sul lavoro in remoto al Meridione: il governo lo appoggia ma per Rossella Cappetta prof della Bocconi a lungo andare rovina l'economia italiana

Francesco Specchia
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Rieccola, è tornata implacabile la questione meridionale. Da quando il premier Draghi, per riattivare i distretti industriali, ha rimesso mano alle grandi promesse che fecero divampare le teorie unitarie di Nitti, Salvemini, Croce e Giustino Fortunato ai primi del secolo scorso, be’, l’eterna querelle Settentrione-contro-Meridione riemerge dalle pagine dei giornali. Stavolta la questione prende forma sotto un nome più esotico. “Southworking”. Lavorare al sud (da remoto).

Il termine è stato coniato da un gruppo di giovani di Palermo, creatori del Global Shapers Palermo Hub, un centro che studia il fenomeno dello smart working localizzato in una sede diversa dal datore di lavoro, in particolare dal Sud Italia. Southworking è il trasferimento e/o fuga dei lavoratori e degli studenti fuori sede rientrati subito dopo la riapertura con la fase 3 del Covid nei luoghi di origine (100mila lavoratori su 150 grandi imprese con oltre 250 addetti), determinando un ripopolamento di borghi, spiagge, interi paesoni di montagna un tempo abbandonati causa emigrazione che neanche nei film del dopoguerra di Visconti. Per Draghi e la ministra del Sud Mara Carfagna, gran parte del Recovery Fund dovrà servire a riequilibrare la diseguaglianza fra le due Italie. Per altri “questo paradigma si tradurrebbe in una sconfitta politica. Dimostrerebbe che al Sud non è possibile investire e fare impresa, trasformando questa parte del Paese in un dormitorio del Nord”. La dichiarazione -una fucilata per le nostre politiche comunitarie- arriva da Rossella Cappetta, docente di Management e Tecnologia all’università Bocconi di Milano; la quale, su Business Insider spiega: “Negli Stati Uniti dipendenti di grosse aziende della Silicon Valley vivono negli Stati centrali del Sud per risparmiare. Ma per questo vengono anche pagati meno. Oggi in Italia una retribuzione differenziata non è possibile, la legge lo vieta. Ma nel tempo il southworking istituzionalizzato potrebbe portare a enormi disparità”. Cappetta spiega che Southworking e lavoro agile possono andar bene, forse per i liberi professionisti che ne beneficiano in qualità della vita. Ma per le imprese deve essere limitato nel tempo: “Le imprese danno il massimo e generano valore solo in situazioni di grande complessità. Che non si verifica se i suoi dipendenti operano da remoto. Solo un pezzo del coordinamento può essere effettuato a distanza. E non è pensabile abbandonare del tutto l’ufficio. L’ideale sarebbe creare un equilibrio che consenta di stare a casa due giorni e in azienda i restanti tre”. Un mix ideale per le imprese, incompatibile col southworking. La maggior parte dei lavoratori che scelgono il Sud è infatti dipendente da aziende localizzate nel Centro-Nord del Paese e non potrebbe quindi diventare pendolare. Insomma, avverte la prof: la situazione può durare così per la pandemia, ma a lungo andare arriverebbero isolamento sociale, più costi di organizzazione e meno produttività.

C’è un altro problema: il lockdown prolungato svuota di meridionali le città del nord e va ad incidere sul Pil.  L’allarme della docente echeggia anche in un’inchiesta del Sole 24Ore in cui si evidenzia come, per esempio, in 20 anni Milano abbia guadagnato circa 100mila residenti provenienti da altre regioni d’Italia, soprattutto dal Mezzogiorno, e una parte consistente di questi, con la pandemia, è rientrata nella propria terra, continuando a lavorare online, ma non consumando più nel capoluogo lombardo (a Milano giravano 3 milioni di abitanti, il doppio dei suoi abitanti). Ergo: il Southworking non darebbe gli strumenti per la crescita economica al sud e depaupererebbe il nord.

Ma c’è chi sostiene anche la tesi opposta. Come il giornalista-storico terrone Pino Aprile. O il Quotidiano del Sud di Roberto Napoletano che da mesi smentisce la voglia autonomista del nord; e, citando i rapporti della Corte dei Corti e Svimez (per ogni euro investito nel Sud 40 centesimi tornano all’economia del Centro-Nord in termini di beni e servizi per le imprese settentrionali; per ogni euro investito nel settentrione solo 6 centesimi ritornano nel meridione). In un reportage economico di Isaia Sales su Repubblica, poi, in cui si paragonano gli investimenti della Germania Ovest sulla Germania est a quelli dell’Italia del nord su quella del sud; con la mitica Cassa del Mezzogiorno si raggiunse un obolo dell’1% del Pil. Che, in effetti contribuì a portare la nazione nel boom. “Il Sud fu parte integrante delle strategie di sviluppo della nazione, con la sua manodopera emigrata che rese possibile il balzo industriale del Nord (ben 2 milioni e mezzo di meridionali emigrarono tra il 1955 e il 1975)” scrive Sales “con la costruzione di infrastrutture che fecero uscire dal Medioevo intere comunità, con l’allargamento della sua base industriale e agricola, e la partecipazione alla società dei consumi di una parte consistente della sua popolazione”. Nel lockdown segue dibattito…

 

 

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