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Bruno Vespa, la verità sul Quirinale: "Napolitano e il dolce colpo di Stato", perché Draghi deve fare attenzione

Bruno Vespa

Alessandro Giuli
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Bruno Vespa non sbaglia un libro. L'ultimo, Quirinale-Dodici Presidenti tra pubblico e privato (Rai Libri, 336 pagine, 20 euro), è piacevolissimo e più attuale di quanto si possa credere poiché ci ricorda in modo implicito che oggi tutte le mosse politiche del governo e dei partiti vanno lette in vista dell'appuntamento fatale dell'anno prossimo, quando si eleggerà il successore di Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica. Il Quirinale, colle consacrato in antico al dio dei cittadini romani riuniti in curie (Quirino), è stato via via domicilio di papi e di re, e dal secondo dopoguerra ospita la prima carica dello Stato, di cui Vespa ricorda nell'introduzione le ambiguità costituzionali e la recente, progressiva acquisizione di potere materiale a discapito di Palazzo Chigi.

 

 

 

Ma Vespa non fa politologia, pur essendo oggi il principe-decano del giornalismo politico nazionale, semplicemente passa in rassegna la vicenda biografica e privata degli inquilini del Colle offrendoci una panoramica perfetta, senza l'ombra di una smagliatura, che al tempo stesso vale come il ritratto in movimento dell'Italia dal 1947 ai giorni nostri. L'elezione del presidente, insegna Vespa modellando fatti e ricordi, è un immane sforzo corale, impastato di cordate e tessiture di bottega, iniziative e ambizioni personali, colpi di fortuna e ostinazione, geometrie non euclidee che precipitano talora dove meno te l'aspetti. Curiosissimo come il romano Gaio Svetonio nella sua "Vita dei Cesari", ma a differenza sua mai sgraziato o patentemente corrosivo, l'ex direttore del Tg1 maneggia la fredda ricognizione degli eventi con una destrezza sbalorditiva soltanto per chi non abbia mai incrociato i suoi numerosissimi altri libri. Grazie a lui disponiamo adesso di una rosa dei venti per orizzontarci negli oscuri meandri labirintici per i quali ogni "quirinalizzato" è dovuto passare. Lo schema narrativo di Vespa si regge su un criterio di semplicità esemplare: come è stato eletto il Presidente X (e come sono stati liquidati i concorrenti), quali intrighi ha dovuto aggirare (spesso trame domestiche, cioè provenienti da compagni di partito ma rivali per corrente o interessi laterali), chi ha dovuto ringraziare e perché; come si è dipanata la sua esperienza istituzionale. Non manca, naturalmente, una prudente ma profonda incursione nella vita privata, oltreché nella formazione professionale e nel cursus honorum, culminante nella cavalleresca e quanto mai opportuna scelta (visti i tempi) di accompagnare a ciascun presidente un'appendice sulla sua first lady, ove presente, e che nel caso dei vedovi Saragat Scalfaro Mattarella coincide con le rispettive figlie: Tina ("la prima figlia della Repubblica"), Marianna e Laura.

 

 

 



Lo scapolo De Nicola - La galleria prende inizio con lo scapolo Enrico De Nicola, monarchico riluttante prestato alla Repubblica dopo il referendum del 1946, in attesa della Costituente che avrebbe seminato l'elezione successiva di Luigi Einaudi, il cattolico liberale che divideva le pere a metà. Sin da qui la potenza dell'aneddotica e il gusto del dettaglio miniaturistico consentono a Vespa d'incastonare le genealogie quirinalizie in un mondo circostante popolato dai partiti del Cln (dalla Dc alla sinistra frazionata in Pci, Psi e socialdemocratici passando per liberali e repubblicani e azionisti) così come dagli eredi degli sconfitti (missini e monarchici): tutti satelliti orbitanti intorno al cardine della Guerra fredda e della cortina di ferro, con la Dc a spadroneggiare come un Parlamento a sé, diviso in correnti e partiti nel partito. Per ogni elezione c'è una liturgia bizantina fatta di candidature civetta e nomi di bandiera, convivi clandestini, giravolte e carambole, franchi tiratori, lotte intestine, traditori e traditi anche una volta ascesi al sacro Colle. Ecco dunque stagliarsi il populista Giovanni Gronchi, Peron in sedicesimo considerato dall'ambasciatrice americana Clare Boothe Luce «una sciagura per il proprio Paese». Ecco il sardo Antonio Segni, detto anche «bolscevico bianco» perché fu il latifondista che smobilitò i latifondi (compreso il suo) da ministro dell'Agricoltura. Dimissionario per via di un ictus, è passato alla storia anche come «l'omino di porcellana» (Montanelli dixit) che firmò i «Trattati di Roma» per la nascita della Comunità Economica Europea e concluse il suo lavoro nella caligine dei sospetti golpisti legati al rapporto col generale Giovanni de Lorenzo. Il capitolo forse più bello riguarda Giuseppe Saragat, il socialdemocratico torinese che presiedette l'Assemblea costituente, soprannominato don Peppino 'o telegramma (ne inviava moltitudini), eletto la notte tra Natale e Santo Stefano con i voti del Pci. Per dare l'idea dello spessore del personaggio e dell'epoca, occorre riportare il virgolettato di Vespa: «La sua formazione politica e soprattutto culturale lo metteva una spanna sopra gli altri. Leggeva in francese i classici francesi e in tedesco i tedeschi, Goethe, innanzitutto, di cui conosceva alcuni scritti a memoria e di cui saccheggiava citazioni per ogni circostanza. "È un uomo di statura intellettuale europea", dice Montanelli... Diceva Lelio Basso, socialista eminente: "Ha sempre scambiato se stesso per il padreterno"».

L'avvocato napoletano - Più sbiadito Giovanni Leone, grande avvocato napoletano, longevo presidente della Camera e premier due volte (governi balneari del 1963 e 1968), un mediatore naturale eletto alla vigilia di Natale e dimissionato con sei mesi di anticipo sul previsto per via dell'inchiesta sulle tangenti Lockheed, con addosso molti schizzi di fango di fango lanciati dall’Espresso e un libro feroce di Camilla Cederna. Sua moglie Vittoria, assai più giovane, inaugurò l’inesauribile morbosità dei rotocalchi e fu calunniata dal Sifar con un dossier patacca. A partire da lui, Vespa sifa anche testimone direttoi n qualità di brillante giornalista alle prime armi (quirinalista del Tg1, bacchettato e poi accolto al Quirinale dopo un servizio sgradito) ma già direttore in erba. Il ritratto di Sandro Pertini è insolitamente ruvido. Del partigiano socialista evaso da Regina Coeli nel 1944 ed eletto a 82 anni a dispetto dei maligni - «C’è chi nasce vecchio e chi rimane giovane per tutta la vita. Io appartengo alla seconda categoria. Se non mi vogliono, se ne inventino un’altra» - e plebiscitato con 832 voti su 995 malgrado lo sgambetto di Bettino Craxi, Vespa sottolinea il «carattere infernale» e «amabilmente vanitoso». Mediatico e dirompente nella comunicazione (basti pensare al Mundial 1982), detestava i bambini ma si offriva come nonno d’Italia, era invidioso di Giovanni Paolo II, il suo settennato fu punteggiato dal terrorismo e dalle morti acerbe: gli omicidi di Piersanti Mattarella, Walter Tobagi e Ezio Tarantelli, le stragi di Ustica e Bologna,la scomparsa di Ugo La Malfa ed Enrico Berlinguer. Compassionevole con il sassarese Francesco Cossiga – il ministro
dell’Interno del caso Moro e delle Br spuntate «dall’album di famiglia del Pci», il Kossiga con la K del progetto anticomunista Gladio, con le sue picconate e le dimissioni dopo 82 cartelle di messaggio al Parlamento in cui reclamava l’elezione diretta del capo Stato, il sistema maggioritario, i referendum propositivi - Vespa non simpatizza per il successore Oscar Luigi Scalfaro.

E su Scalfaro... - Eletto sull’onda emotiva della strage di Capaci, il togato novarese viene tratteggiato come un uomo di seconda fila «astutissimo e spregiudicato». Dal crollo della Prima Repubblica al ribaltone contro il corpo estraneo Silvio Berlusconi passando per l’ombra mai dissipata della stecca da 100 milioni mensili garantiti dai servizi ai ministri dell’Interno (come Scalfaro) sin dal 1982, con lui il quadro quirinalizio si fa insomma decisamente fosco. Ma viene riscattato poi dal livornese Carlo Azeglio Ciampi, allievo del filosofo azionista Guido Calogero, funzionario prodigio e poi governatore di
Bankitalia, ministro dell’Economia di Prodi con la missione di portare l’Italia in Eurolandia, insigne patriota di taglio risorgimentale.

E siamo infine ai giorni nostri o giù di lì con l’eletto e rieletto Giorgio Napolitano il primo comunista ricevuto in America, protagonista del “dolce
colpo di Stato” del 2011 che – complici Angela Merkel e Nicolas Sarkozy – mise fuori gioco il Cavaliere a beneficio dei tecnocrati di Mario Monti. E
qui il percorso termina in modo circolare: con Sergio Mattarella, il nome uscito dal cilindro renziano che nel 2015 ha affossato il Patto del Nazareno, siamo rientrati dalla storia alla cronaca effigiata nuovamente da un volto tecno-politico: Mario Draghi, inquilino di Palazzo Chigi predestinato al Colle. Fossi in lui, leggerei il libro di Vespa con la matita rossoblù e un corno scaramantico in tasca.

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