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Riccardo Muti, il retroscena sulle dimissioni: quello che nessuno sapeva

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Filippo Facci
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Lo scoop più silenzioso della mia vita risale al 2 aprile 2005 e riguarda Riccardo Muti, maestro d'orchestra che in questi giorni sta rilasciando interviste a giornali che stanno cercando dappertutto qualche posizione culturale antigovernativa. Se me ne ricordo ora c'è una ragione. Si torna appunto a 17 anni fa, quando Giuliano Ferrara mi diede il via libera per pubblicare sul Foglio un mega-ritratto di Muti (29mila battute, almeno tre pagine di questo giornale) destinato a cozzare clamorosamente contro l'apparato che proteggeva il Maestro un po' ovunque: su tutti la Sovrintendenza della Scala, il Corriere, il Giornale e soprattutto Mediaset attraverso Fedele Confalonieri, che per il maestro aveva una passione smodata. Scrissi una sorta di poema con informazioni mai pubblicate che avevo serbato per anni e che avevo recuperato tra amici orchestrali e poi da una talpa formidabile alla Sovrintendenza e anche traducendo libri e giornali stranieri.

Il giorno della pubblicazione era un sabato: Muti lesse l'articolo, telefonò a Confalonieri e gli comunicò le proprie dimissioni dal Teatro alla Scala, dov' era stato direttore di ogni cosa per quasi vent'anni: si sentiva tradito politicamente - dopo esserlo stato clamorosamente dai suoi stessi orchestrali - dopodiché Confalonieri, imbufalito, telefonò a Ferrara, che infine telefonò a me: «Hai fatto il botto». Mi disse pure, perfidamente, che al telefono aveva obiettato: «Ma dottor Confalonieri, che vuole? Facci è un vostro dipendente». Era vero: ero stato assunto a Mediaset nel 1999. Non furono giorni facili, perché il terremoto scosse mondi elitàri un po' porporali e insomma, non è che ne parlassero nei bar; poi era vero che il mio articolo era stato solo un micidiale colpo di grazia rispetto a un malcontento sorto soprattutto in seno all'orchestra: la reazione di Muti, tuttavia, diede l'idea di come un segnale mediatico di abbandono politico (che peraltro non era) poteva essere sovradimensionato in un mondo in cui il benestare del sovrano aveva ancora un suo primato.

QUANTE REAZIONI
Nei giorni successivi ricevetti le telefonate più impensabili: mi contattarono persino due celeberrime bacchette (oggi scomparse) che misero a dura prova il mio inglese incespicante, e mi chiamò anche Franco Zeffirelli, che non conoscevo ma che mi voleva assolutamente a pranzo nella sua villa: rifiutai per timidezza. Conservo ancora i bigliettini autografi del più grande dei critici musicali, Paolo Isotta: veleno puro. Mi chiamò entusiasta, invece, un noto magistrato melomane, Renato Caccamo, presidente milanese della Corte d'Appello, il quale, tu guarda, aveva fatto condannare Bettino Craxi a una decina d'anni nei processi Eni-Sai e Metropolitana Milanese: dovevamo incontrarci, disse, e magari organizzare una serata col suo giro di amici musicofili meneghini. La serafica violenza con cui gli risposi, ricordo, lo lasciò zitto per un po': disse che, a quel punto, ci saremmo incontrati di sicuro: ma il suo tono era cambiato. Comunque non avvenne mai. L'altra sera, al Museo della Scala, mi hanno riconosciuto e salutato persone che non avevo mai visto e sentito - gente di un certo ruolo - ma che ancora volevano complimentarsi per quell'articolo di 17 anni fa.

Ed è la prima ragione per cui Riccardo Muti mi è tornato in mente. La seconda ragione è perché, nelle interviste di questi giorni, le sue lagnanze sono rimaste identiche nei decenni: c'è stata qualche virata solo sui nomi. Sei giorni fa, per esempio, Muti ha definito Vittorio Sgarbi «un uomo coltissimo», come è vero, ma nei primi anni Novanta, viceversa, Muti tuonava contro «il diminuendo culturale totale degli Sgarbi e dei Pippibaudi». Era il periodo in cui si scagliava contro «la globalizzazione della musica», quando diceva che solamente tre orchestre al mondo erano degne di menzione: La Scala (c'era lui) e Vienna (c'era spesso lui) e Philadelphia (c'era stato lui). Ieri, in un'intervista sulla Stampa, gli hanno ricordato quando si battè perché l'Inno di Mameli, che chiude le trasmissioni di RadioRai, fosse suonato da un'orchestra italiana e non dai Berliner (dove lui non è mai stato) e Muti ha risposto che «dobbiamo puntare di più sulla nostra identità»: né l'intervistatore né l'intervistato hanno tuttavia rammentato quando il maestro, nel 1999, non volle suonare l'inno di Mameli alla Prima della Scala, questo a dispetto delle esplicite richieste del Capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi, che infatti se ne andò senza salutarlo.

ORDINI E CONSIGLI
Qualche musicofilo potrebbe addirittura ricordare la nolenza del Maestro alle esecuzioni lente e più solenni dell'Inno (le uniche decenti, le uniche che non la facciano sembrare quella marcetta binaria "zumpappà" che purtroppo resta) e insomma: le volte che la Sovrintendenza fu costretta a giudicare «artisticamente incompatibile» l'esecuzione dell'Inno, che oggi è la regola. Sempre nell'intervista alla Stampa, ieri, Muti ha detto di non conoscere il nuovo ministro Gennaro Sangiuliano ma che spera «sappia ascoltare i veri uomini di cultura non per ricevere ordini, ma per raccogliere consigli». Già sentita anche questa: capitò quando il vicepresidente del Consiglio Walter Veltroni parlò di sovvenzioni per la musica, nel 1997, e Muti rispose: «Non l'ho mai incontrato, e non sono certo io a dover battere alle porte». Ci fermiamo qui. La verità è che il maestro Riccardo Muti oggi ci manca, e pure molto: a dispetto delle sue propensioni e di un repertorio preciso. Le sue interviste ci mancano un po' meno.

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