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Giampiero Mughini e le Br: "Gli intellettuali che devono vergognarsi

 Giampiero Mughini

Giampiero Mughini
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Pubblichiamo ampi stralci dell’introduzione di Giampiero Mughini alla nuova edizione del suo libro “Gli intellettuali e il caso Moro”. Edito da Feltrinelli nel 1978, il volume era rimasto semiclandestino. Ora, grazie alle Edizioni Pendragon, torna in libreria (88 pp., 13 euro).

I 55 giorni che vanno dalla mattina del 16 marzo 1978 alla mattina del 9 maggio dello stesso anno, dal momento in cui un agguato politico criminale mise a morte i cinque uomini della scorta di Aldo Moro fino al momento in cui il suo cadavere venne ritrovato nel bagagliaio di una Renault rossa posteggiata a metà strada tra la sede centrale del Pci e quella della Democrazia Cristiana, sono stati fra i più drammatici e fluttuanti nella storia della Repubblica. E dico fluttuanti perché per uno che durante quei 55 giorni volesse ragionare di quanto stava accadendo, ossia di una gang terroristica che deteneva il presidente della Democrazia Cristiana e che minacciava di ucciderlo se non fossero stati liberati tredici dei loro complici detenuti nelle carceri italiane, ciascun minuto poteva farti dirottare da quello precedente nel senso che da un minuto all’altro poteva arrivare (...) una notizia che arrovesciasse il senso di quanto era accaduto fino a quel momento.

In ciascun minuto di quei 55 giorni poteva arrivare un nuovo “comunicato” delle Br o magari una foto che cambiavano l’ordine dei pezzi sulla scacchiera, in ciascun minuto poteva arrivare una qualche risultante dei 72.460 posti di blocco operati dalla polizia in quei giorni – ovvero del controllo di oltre sei milioni e quattrocentomila persone – che permettesse di arrivare alla “prigione del popolo” in cui era detenuto Moro e salvarlo. Niente, di risultati da quei controlli non ne arrivarono. Le Brigate Rosse sconfissero persino “il calcolo delle probabilità”, scriverà Leonardo Sciascia a tre mesi dalla morte di Moro in quel suo mirabile L’affaire Moro edito da Sellerio nell’ottobre 1978. Figuratevi quale fosse la condizione intellettuale del sottoscritto trentasettenne al quale un redattore della casa editrice Feltrinelli aveva chiesto per telefono a inizio aprile (mentre mi trovavo nella tipografia dove si stampava il quotidiano comunista romano Paese Sera di cui ero un redattore) di scrivere a tamburo battente il resoconto di una discussione che aveva nel frattempo acceso alcuni fra i più importanti scrittori e intellettuali italiani, se davvero valesse la pena difendere questo nostro Stato dall’attacco frontale di quelle canaglie, “figli nipoti e pronipoti” del comunismo staliniano. Se ne valesse la pena. Di questo dovevo scrivere a tamburo battente, e dunque magari prima di sapere come quella tragedia si sarebbe conclusa. Ci riuscii, quaranta cartelle fitte fitte consegnate nei giorni in cui si era appena saputo della sorte di Moro e che stando ai patti dovevano essere pubblicate seduta stante.

IL DILEMMA SULLO SCAMBIO
Accadde invece che i redattori della Feltrinelli con cui avevo avuto a che fare non dessero più segno di vita, se non uno di loro mormorare al telefono che i più comunisti e i più ultrarossi di quella loro redazione erano avversi al mio testo. E finché alcuni mesi dopo non mi arrivarono una decina di copie di un libriccino dal titolo “Gli intellettuali e il caso Moro” che portava come sigla editoriale quella della Libreria Feltrinelli, e che se non sbaglio era stato edito in 200 copie. Un libriccino che in questo mezzo secolo sarebbe rimasto semiclandestino o forse clandestino del tutto, salvo che su Amazon ne comparisse ogni tanto una copia a un prezzo più vicino ai 150 che ai 100 euro. Una di queste copie l’ha comprata un mio vecchio compare, il libraio antiquario bolognese Piero Piani, il quale ha voluto rieditarlo. Bontà sua. È un libriccino che io stesso avevo come cassato dalla mia memoria. Lo tenevo su uno scaffale alto della mia biblioteca, lontano dallo scaffale dove sono riposti i libri che ho firmato nella mia vita. Era come se quelle sue 64 paginette non mi appartenessero. Né mai più lo avevo preso in mano e riletto. Solo continuava a bruciarmi l’offesa che mi era stata fatta dalla Feltrinelli in quell’autunno del 1978, e non che sia stata l’unica della mia carriera professionale. Il libriccino a questo punto l’ho letto e riletto, un paio di volte. Confesso che non mi è spiaciuto affatto, per quanto turbinosa fosse la materia con cui cercavo di farei conti. (...)

Tutti egualmente brucianti, gli argomenti all’ordine del giorno in quei maledetti 55 giorni erano tanti. Il più angosciante quello se sì o no patteggiare coi brigatisti, se sì o no dare un prezzo alla vita di Moro col mettere in libertà un qualche numero di brigatisti persino colpevoli di reati di sangue come pure le Br avevano chiesto. Se sì o no accettare questo “scambio” di prigionieri costituiva un dilemma atroce e pressoché inedito per una democrazia occidentale del secondo dopoguerra. (...) Ma torniamo per un attimo al mio libriccino nato semiclandestino nell’ottobre 1978. L’epicentro, la sua ragion d’essere, non stavano nella valutazione se sì o no bisognava pagare un prezzo per la vita di Moro. L’epicentro stava nel soppesare le ragioni e gli umori di quella parte dell’ambiente intellettuale cui si attribuiva la fatidica dizione «Né con le Br né con Moro», una dizione che a dire il vero nessuno aveva pronunciato ma era come se. Una dizione di cui chi ha oggiventi o trent’anni non ha il minimo sentore di che cosa significasse, ma che allora era come se si conficcasse nella carne viva di molti di noi a lasciarci stupefatti. Era, quella dizione, un lasciar intendere da parte di alcuni pur prestigiosi intellettuali italiani i quali condannavano senz’altro l’azione sanguinaria dei brigatisti, che non per questo loro volevano prendere le parti di uno Stato in cui gli “sfruttatori” non davano requie agli “sfruttati”. Ancora una volta, era il vantare l’asfissiante primazia del criterio di “classe” come quello più atto a identificare i veri nemici, e come non potevi dire a questo punto che il vero nemico era “il potere borghese” rappresentato alla grande dagli uomini della Democrazia Cristiana? (...)

C’è un ultimissimo capitolo alla fine del libro dal titolo “Lettere dal pozzo della tortura” dove scrivevo che, contrariamente a quanto dicevano dei cialtroni che reputavano quelle lettere scritte sotto dettatura dei brigatisti, «le lettere erano di pugno del prigioniero, non mi pare dubbio, ne conservavano tutta la sinuosità stilistica, quel poggiare ad arte su singole parole e aggettivi». Aggiungevo pure che mi lasciava allibito quel fondo di Eugenio Scalfari sulla Repubblica dove diceva che finché Moro «collaborava» con le Br come stava facendo, la sua vita non correva alcun pericolo. E del resto erano stati ben cinquanta “gli amici di vecchia data” di Moro, ossia dei politici democristiani, i quali mentre Moro era prigioniero delle Br distribuirono ai giornalisti un documento «mostruoso» (definizione di Leonardo Sciascia) in cui sostenevano che l’uomo che stava firmando le lettere inviate a Benigno Zaccagnini e ad altri non era più l’uomo che loro conoscevano e avevano frequentato da anni, non era più l’uomo che con altri aveva dato vita alla Carta costituzionale che disegna la fisionomia della nostra Repubblica.

I SOSPETTI SULLE LETTERE
E ancora. Non furono pochi quelli che, durante i 55 giorni, ebbero l’impudenza di recitare la bestialità inaudita che le lettere di Moro non reggevano il confronto – quanto al coraggio e alla dignità di chi le scriveva – con le lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana, e come se si potessero paragonare le due situazioni abissalmente diverse: una guerra civile da un lato e dall’altro un’Italia in cui milioni e milioni di italiani andavano tranquillamente al lavoro ogni mattina, e solo uno di loro venne rapito, minacciato e messo a morte.

PEGGIO DELLE PALLOTTOLE
Se non erano queste parole, pronunziate da tanti, ancor peggiori delle pallottole che toglieranno la vita all’uomo rannicchiato nel bagagliaio della Renault e che tutta la vita aveva cercato di rendere migliore la democrazia italiana. Già un anno dopo la morte di Moro, Bettino Craxi ricordava che nel frattempo erano stati messi in libertà dieci terroristi o ex terroristi italiani. Com’era stato possibile che ci si rifiutasse di tirarne fuori anche uno solo pur di salvare la vita al presidente della Dc? L’Italia tutta in quei 55 giorni ha contratto un debito con Aldo Moro e con la sua famiglia. E finché nell’ottobre 1978 non arrivò un libro di Leonardo Sciascia prezioso nel tentare di pagare quel debito, la prima edizione di L’affaire Moro, quel libro avvolto in un pergamino con dentro un segnalibro che portava il marchio della Sellerio, 146 pagine in tutto, un libro che non può mancare nella biblioteca di un cittadino della Repubblica. Alla maniera di un libro sacro. Per quanto “scomodo” sia l’affermarlo, questo era l’assunto di Sciascia, è fuori di dubbio che Moro ha sempre pensato alla maniera delle lettere che scriveva sdraiato sul letto dello scatolone in legno, «che non sono state le Brigate Rosse, con sevizie e droghe, a convertirlo alla liceità di uno scambio di prigionieri tra uno Stato di diritto e una banda eversiva».

Lo Stato doveva mostrare di essere forte nel rispetto delle regole, di non cedere al ricatto di una banda di assassini? E qui, alla pagina 63 del libro di cui stiamo dicendo, Sciascia scrive quello che andrebbe messo ai piedi di una targa ideale che ricordasse la tragedia per eccellenza della nostra storia repubblicana. La messa a morte di Moro. Al modo di una targa, così: «Lo Stato italiano è vivo, forte, sicuro e duro. Da un secolo, da più che un secolo, convive con la mafia siciliana, con la camorra napoletana, col banditismo sardo. Da trent’anni coltiva la corruzione e l’incompetenza, disperde il denaro pubblico in fiumi di impunite malversazioni e frodi. Da dieci tranquillamente accetta quella che De Gaulle chiamò – al momento di farla finire – “la ricreazione”: scuole occupate e devastate, violenza dei giovani fra loro e verso gli insegnanti. Ma ora, di fronte a Moro prigioniero delle Brigate Rosse, lo Stato si leva forte e solenne. Chi osa dubitare della sua forza e solennità? Nessuno deve aver dubbio: e tanto meno Moro, nella prigione del popolo». E non c’è altro da aggiungere. Roma, gennaio 2023 Ps. Mi accorgo solo adesso, mentre sto correggendo le bozze, di una mia grave dimenticanza che sarebbe suonata offensiva per un mio quarantennale amico, il Roberto D’Agostino che ha creato Dagospia. Non ricordo più se dieci o più anni fa lui mi chiese di mettere in pagina e offrire ai suoi tanti lettori il mio Gli intellettuali e il caso Moro. Ciò che fece a lungo. 

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