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Gessica Notaro: "Ma che patriarcato, gli uomini violenti vanno presi a calci"

Gessica Notaro

Hoara Borselli
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«Da tempo ormai giro con la scorta. Ricevo minacce di morte, giornali che pubblicano mie foto vengono ricoperti di insulti e gettati davanti alle case protette che ospitano donne vittime di violenza...».

Chi parla è Gessica Notaro. Determinata, diretta e con le idee chiarissime. «Ogni vittima di violenza è un fallimento di tutti noi», ci dice. Lei, vittima di una terribile violenza lo è stata. Le è stato gettato dell’acido sul volto. Chi ha compiuto quel gesto non si immaginava che Gessica, più bella di prima, si è rialzata, ha reagito e oggi, felicemente sposata, combatte per proteggere le altre potenziali vittime.

Ora che la violenza contro le donne è al centro del dibattito pubblico, abbiamo voluto capire cosa veramente si può fare per proteggere chi rischia di cadere nella rete del suo aguzzino. Non ci interessa tornare sulla sua triste vicenda che ben si conosce, ci siamo piuttosto chiesti, con lei, come si può, se si riesce, fermare il mostro prima che non lasci scampo.

Gessica, di violenza contro le donne si parla tanto, l’attenzione mediatica dopo la tristissima vicenda di Giulia si è concentrata su questo dibattito. Che impressione ha rispetto a ciò che sta accadendo?
«Se da una parte c’è un sistema di comunicazione che funziona benissimo, quello pratico funziona molto meno, anzi, non funziona proprio».

 

 

Di quale sistema parla?
«Quello che dovrebbe proteggere le vittime. Il vero problema sta proprio qui, intervenire al momento giusto per salvare due vite, quella dell’aggressore e quella dell’aggredito».

Ci spieghi meglio
«Prendiamo il caso di Giulia Cecchettin. Se qualcuno fosse stato in grado di comprendere il suo grido di allarme e fosse intervenuto in modo efficace si sarebbero potute salvare sia la vita di Giulia che quella di Turetta che ormai è rovinata. Anche la mia richiesta di aiuto è stata inutile».

Lei aveva denunciato ma non è bastato...
«Non solo era stato denunciato da me, anche dai miei colleghi di lavoro, il mio capo, l’avevamo denunciato tutti più volte».

Una volta denunciato cosa è stato fatto per tutelarla?
«Avevano adottato delle misure cautelari. Gli avevano imposto di mantenere una distanza di avvicinamento di cinquecento metri ridotta poi a cinquanta. Gli avevano imposto l’obbligo di firma e il divieto di uscire la sera. Peccato che mi chiamassero le amiche che mi avvertivano di non uscire di casa perché lui era tranquillamente in discoteca. Nessuno lo controllava».

Poi cosa è accaduto?
«Sono scaduti i termini ed è decaduto tutto. Ha fatto il bravo per un po’, ha aspettato che l’attenzione su di lui venisse meno, io mi sono rilassata e a quel punto mi ha fregata. Ha presente la quiete prima della tempesta? È andata esattamente così. Appena sembrava che tutto fosse tornato normale ha potuto agire indisturbato».

Questo è secondo lei uno dei motivi peri quali le donne sono reticenti a denunciare?
«Certo, le donne hanno paura. Denunciano e vengono lasciate sole. Denunciare deve essere una garanzia di difesa. Hanno paura che serva solo ad incattivire l’aguzzino».

Come pensi si debba cambiare il sistema affinché un grido di allarme possa essere efficacemente recepito e sentirsi veramente protette?
«Io da sette anni mi batto per le vittime di violenza per agire direttamente sul campo. Per questo è nato il progetto “Agata”».

In cosa consiste?
«Questo progetto vede l’inserimento di un agente privato».

Un investigatore che segue l’aguzzino?
«Non il classico investigatore privato che conosciamo ma un vero professionista addestrato per prevenire le aggressioni. Una figura che svolge un lavoro di controllo accanto alla vittima per prevenire la percentuale di rischio su eventuali aggressioni. Un aiuto anche perle forze dell’ordine perché recupera una serie di prove utili da consegnare poi al giudice, stando in maniera fissa alle spalle della vittima e alle costole del potenziale aggressore».

È stato già provato questo sistema di protezione?
«Prima di proporlo lo abbiamo collaudato sul campo. Ci ho lavorato molto tempo e abbiamo salvato delle vite».

Un sistema dispendioso?
«Molto dispendioso. Non ci sono volontari ma professionisti che rischiano la vita ed è giusto che vengano pagati. Ultimamente con le donazioni ricevute anche dal mio matrimonio dove non ho chiesto agli invitati regali ma una libera donazione per l’associazione, siamo riusciti a raccogliere sessantamila euro e abbiamo sventato alcune violenze certe».

Pensa che le donne spesso non riescano a cogliere i segnali che possano far capire loro di essere seriamente in pericolo?
«Il vero problema è che fino a quando queste cose non capitano a te e le senti solo al telegiornale ti sembrano lontane. C’è una tendenza a sminuire il problema e pensare: “A me non capiterà mai”».

Paradossale che dopo ciò che le è accaduto deve girare con la scorta per le minacce di morte che subisce. Come si spiega tutta questa cattiveria?
«A me è molto chiaro.
Quando io riesco a compiere bene la mia missione sventando anche solo una aggressione, divento un ostacolo per questi soggetti».

Vorrebbero agire indisturbati. Le dà fastidio...
«Chiaro! Non vogliono essere smascherati».

 



 

In questi giorni stiamo assistendo ad una criminalizzazione del “maschio”. La colpa individuale che diventa colpa sociale. Anche tu pensi che sia un problema generalizzato?
«Negli ultimi giorni va di moda utilizzare la parola “patriarcato”. Non è sempre quello il problema, è uno dei problemi. Non credo sia un problema culturale, di educazione delle masse. Negli ultimi anni se ne parla moltissimo, io stessa ne ho parlato tanto nelle scuole. Per cinque anni sono stata dalle elementari alle università a parlarne. I ragazzi sanno come devono comportarsi con le donne».

Perché allora accade? Che spiegazione ti sei data?
«Dobbiamo smetterla di cercare una spiegazione razionale in questi casi di violenza perché non esiste. Parliamo di individui che non ragionano con una logica normale. L’educazione collettiva di massa è utopia. Basta con le buone maniere. Dobbiamo fargli paura».

Come?
«Questi individui devono sentire il fiato sul collo. Lo stesso che fanno sentire sulle loro vittime. Per la giornata contro la violenza sulle donne hai postato sui social un tuo sfogo molto forte. Non hai usato mezzi termini. «Ho detto la verità, ovvero che i potenziali aggressori andrebbero gonfiati e presi a randellate. Andrebbero presi a calci nei denti e più sentono dolore più gli torna la lucidità. Questo è un dato di fatto».

Sei consapevole che queste tue parole verranno fortemente criticate da chi sostiene che alla violenza non si risponde con la violenza?
«Non mi stupisce visto che siamo in un Paese dove se ti entra un ladro in casa minacciandoti e reagisci vieni accusato e devi pagare per la tua reazione. Visto che non è possibile reagire con la violenza, ho deciso di mettere in campo mezzi legali come l’investigatore e provare a difenderci così».

Hai dichiarato che in questi anni trascorsi dalla tua terribile esperienza hai capito molte cose.
«Ho capito che tutti i casi di violenza sono legati da un filo conduttore. Tutti seguono gli stessi step».

Quali?
«I potenziali aggressori se la prendono con le persone di sesso maschile che ruotano intorno alla vittima, tendono ad isolarla in modo che non le rimanga altra scelta che il carnefice. Cambiano la sua percezione della realtà facendo vedere alla vittima il mondo con gli occhi del manipolatore. Se la vittima prova a slegarsi dal manipolatore scatta il ricatto morale perché minacciano il suicidio. L'ultimo step è l'aggressione. A quel punto è troppo tardi».  

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