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Mussolini e Hitler, il primo incontro: l'inizio di un rapporto di amore e odio

Giordano Bruno Guerri
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 Già all’inizio degli anni Venti la stampa internazionale aveva adottato il termine “fascista” per indicare le destre eversive che univano nazionalismo, militarismo, antibolscevismo e sfumature corporativiste. Quando questi movimenti e i loro capi si consolidavano nel panorama politico europeo, il paragone con Mussolini era scontato. Lui era fiero- non lo nascondeva - di essere il primo fascista a guidare uno Stato. Nell’inverno del 1923 il re di Spagna, in visita a Roma, disse a Vittorio Emanuele III che con Primo De Rivera, il dittatore salito al potere da poche settimane, anche la Spagna aveva il “suo Mussolini”. Quando Adolf Hitler esordì in Baviera, diversi giornali tedeschi e britannici lo definirono il “Mussolini tedesco”, un paragone che lusingava l’agitatore austriaco e che forse rafforzò la sua determinazione a superare il maestro.

Nell’ottobre 1923, in un’intervista al giornale britannico Daily Mail, Hitler dichiarò: «Se la Germania avesse il dono di un Mussolini tedesco... la gente gli si inginocchierebbe davanti e lo adorerebbe più di quanto Mussolini sia mai stato adorato». Hitler adottò principi, metodi, strategie comunicative e rituali del fascismo, oltre a essere convinto che il duce fosse il naturale alleato del G nazionalsocialismo nella politica internazionale, accomunati dal rifiuto dei confini e dei principi stabiliti a Versailles. Tuttavia i fascisti avevano poca considerazione del futuro Führer e del suo seguito. Nel 1923 il Putsch di Monaco - un tentativo di colpo di stato ispirato alla marcia su Roma e partito dagli spari in una birreria - fallì miseramente, Il Popolo d’Italia definì il nazionalsocialismo una “caricatura del fascismo italiano”, e sebbene Benito vedesse nei nazionalsocialisti potenziali alleati, scelse di attendere gli eventi: lasciò senza risposta diversi appelli di Hitler a incontrarsi e lo fece penare persino per un ritratto autografato da appendere in ufficio.

LA SUPPONENZA
Mussolini era veloce a muoversi appena cambiava il vento. Alcuni mesi dopo il primo trionfo elettorale nazista, fu inviata e ricevuta la sospirata fotografia. Nel 1930, quando la Germania venne scossa dalla crisi economica mondiale e Hitler era ormai sulla cresta dell’onda, Mussolini incaricò propri fiduciari di prendere contatti. Nel 1931 iniziò un distaccato rapporto epistolare e in dicembre, mentre si rafforzava la possibilità che i nazionalsocialisti prendessero il potere, Hitler venne invitato a Roma: dal Partito Nazionale Fascista, non dal duce, e la stampa ebbe l’ordine di dare poco spazio all’evento. Quando tutto era pronto, da Palazzo Venezia arrivò il dietrofront, Mussolini aveva saputo che il governo tedesco non gradiva. Stesso copione nel giugno 1932, quando annullò all’ultimo momento una visita di Hitler; allo stesso tempo, però, faceva recapitare consigli, agevolava le visite di capi nazisti e ne finanziava indirettamente la campagna elettorale, come con altri partiti della destra europea.

Il 30 gennaio 1933 Hitler venne nominato cancelliere e uno dei suoi primi atti ufficiali fu dettare una lettera per il duce, assicurando che «dal mio posto perseguirò con tutte le mie forze quella politica di amicizia verso l’Italia che ho finora costantemente caldeggiato». Nei mesi successivi Benito continuò a essere tiepido con l’ammiratore divenuto “collega”. Certo, non bisognava indispettire le potenze europee, ma la cautela era principalmente supponenza, tutt’altro che lungimirante: sottovalutava il Führer e la sua capacità di restare al potere.
Alla conferenza di Ginevra per il disarmo, nell’ottobre 1933, il discepolo si ribellò al maestro. Di fronte alle reiterate richieste di togliere le limitazioni internazionali al riarmo tedesco, Mussolini incaricò l’ambasciatore Vittorio Cerruti di suggerire al cancelliere moderazione. La proposta scatenò una sfuriata di Hitler: «Mussolini vuole abbandonarci? È forse geloso perché il nazismo sta avendo più eco mondiale del fascismo?» Cerruti fu il primo collaboratore di Mussolini a vedere nel Führer “uno squilibrato”. In quel frangente la Germania uscì dalla Società delle Nazioni, un passo che Benito minacciava da anni senza mai osarlo. Poco dopo Hitler strinse un patto di non aggressione con la Polonia, scardinando il sistema di alleanze francese, che in Oriente faceva perno proprio sulla Polonia. Mancavano sei anni all’aggressione che dette inizio alla Seconda guerra mondiale. Il duce prese male il dinamismo della politica tedesca.

Temeva che la Germania potesse entrare in concorrenza con l’Italia nei Balcani. Peggio, sospettava che Hitler volesse realizzare il primo e più importante punto del suo revisionismo, l’annessione dell’Austria, che avrebbe portato la Germania a confinare con l’Italia, indebolendo i nostri confini settentrionali. Su questo Mussolini non sbagliava, era giunto il momento di guardare negli occhi quel suo ammiratore-rivale, mettendo fine all’anticamera che gli aveva imposto.

DUE STILI DIVERSI
La diplomazia italiana organizzò l’incontro, scegliendo data e luogo: Venezia, tra il 14 e il 16 giugno 1934. Tutto era stato studiato per abbacinare l’ospite, la cui passione per l’arte e la storia erano note. All’aeroporto di San Nicolò Mussolini apparì massiccio, in uniforme e stivali, di fronte a Hitler che in sobri abiti borghesi distribuiva sguardi e sorrisi ossequiosi.
Quella che - allora e in seguito- fu dipinta come la perfetta rappresentazione del diverso stile dei due, in realtà era per entrambi il frutto di una strategia: Benito, più ansioso di quanto volesse far credere, nelle fasi preparatorie aveva informato i suoi che avrebbe evitato orpelli per non conferire troppa importanza all’evento, salvo poi presentarsi bardato, sia pure senza decorazioni. Hitler doveva rassicurare i conservatori tedeschi e l’opinione pubblica internazionale, allarmata dalla sua politica: in quel primo viaggio all’estero voleva apparire determinato, ma ragionevole e mite.

Il colloquio iniziale avvenne nella vicina villa di Stra, nota per un soggiorno di Napoleone. I due avevano molto da dirsi, l’unico ostacolo era la lingua: Hitler non parlava che la sua, Benito pretendeva di masticare abbastanza tedesco per evitare interpreti. In ogni caso la conversazione cadde quasi subito sull’Austria. Hitler sosteneva la necessità di un governo nazionalsocialista per il suo paese natale, assicurando di non puntare all’annessione. Benito rimase nelle sue posizioni rigide. Lungo il percorso delle automobili e dei motoscafi, l’ospite vide ovunque giovani schierati e plaudenti che invocavano il duce. Il giorno successivo Hitler dovette assistere in silenzio a una parata della Milizia in piazza San Marco e all’immancabile arringa dell’italiano che, davanti a 70.000, persone annunciava l’inizio di una nuova amicizia pronta a portare la pace in Europa. Tornato a Berlino, Hitler confidò all’ambasciatore italiano, certo che le sue parole sarebbero arrivate a chi di dovere: «Uomini come Mussolini nascono una volta ogni mille anni... Io, è naturale, mi sono trovato alquanto impacciato con il Duce, ma sono felice di aver potuto parlare lungamente, di aver sentito le sue idee. Che sorta di oratore è! E quale potenza esercita sul popolo!». Se sul piano della diplomazia non si registrarono conseguenze rilevanti, si innescò una complessa simpatia-antipatia reciproca. Amore e odio, potremmo dire, in cui l’amore era solo di Hitler; in realtà vera ammirazione e di più invidia, quindi rivalsa; l’odio, in Mussolini, all’inizio fu per sopportazione opportunistica, alla fine lo diventerà per l’umiliazione.

I LUNGHI COLTELLI
Nella notte fra il 30 giugno e il 1° luglio, erano passate due settimane dalla visita, il mite uomo in soprabito dimostrò al mondo la propria natura, quella vera, facendo massacrare dalle SS un centinaio di “squadristi della prima ora”- le SA- e altri oppositori interni. Fu la “notte dei lunghi coltelli”, e se su quell’episodio Mussolini tacque, non poté fare altrettanto meno di un mese dopo. Da quando a Vienna si era insediato il governo filofascista di Engelbert Dollfuss, sostenuto e finanziato da Roma, il duce riteneva l’Austria un satellite dell’Italia. Il 25 luglio 1934 i nazisti austriaci assassinarono Dollfuss nel tentativo di un colpo di Stato. Quell’atto rischiava di azzerare gli sforzi fatti per allargare la sfera d’influenza fascista in Europa, Hitler aveva dimostrato di volerne creare una nazista. Benito andò su tutte le furie, oltretutto era stato costretto a dare lui stesso la notizia alla moglie del presidente austriaco, in quel momento sua ospite a Riccione.

Mostrò i muscoli e schierò quattro divisioni al confine austriaco, dichiarando che l’Italia tutelava l’indipendenza dell’Austria. In realtà gli interessava tutelare, oltre al predominio sull’area, l’immagine del paese di fronte a Gran Bretagna e Francia. Adesso poteva mostrarsi garante dello status quo in Europa, in cambio dei progetti espansionistici in Africa. Dal momento che l’invasione dell’Etiopia- in preparazione- avrebbe dato uno schiaffo alla Società delle Nazioni, gli faceva comodo che gli sguardi di riprovazione fossero puntati su Hitler.
Questa strategia lo portò al celebre discorso, pronunciato a Bari il 6 settembre 1934, in cui per il nazionalsocialismo c’erano di nuovo solo sberleffi: «Trenta secoli di storia ci permettono di guardare con sovrana pietà talune dottrine d’oltralpe, sostenute dalla progenie di gente che ignorava la scrittura con la quale tramandare i documenti della propria vita, nel tempo in cui Roma aveva Cesare, Virgilio e Augusto». Sono parole citate spesso - di più dopo la guerra- per dimostrare la distanza tra fascismo e il fanatismo razzista e antisemita di Hitler. In realtà questa interpretazione ignora, spesso consapevolmente, che la dichiarazione di Benito era dettata solo dalla convenienza politica del momento e che in ogni caso non contestava il razzismo in sé, bensì la supremazia della “razza ariana”, identificata con quella tedesca, e l’idea di uno spazio vitale “pangermanico” che giustificasse l’unificazione tra Germania e Austria.
Inoltre occorre considerare il razzismo culturale dei fascisti, fondato sull’artificiosa rappresentazione degli italiani come eredi diretti della “superiore civiltà latina”, destinata a dominare nuovamente il mondo. Mussolini condivideva con gli italiani un’antipatia atavica verso i tedeschi, ora accresciuta dall’anticattolicesimo nazista e dal mito tedesco della razza nordica. Eppure entro cinque anni si arriverà al Patto d’Acciaio, entro dieci alla disfatta comune.

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