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Walter Veltroni dichiara guerra ai giovani d'oggi, ma scorda la lotta armata

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Francesco Specchia
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Dopo anni fiammeggianti di sorrisi e di traversate in tutti i meravigliosi mondi di Amelie possibili, Walter Veltroni sta diventando un inguaribile pessimista. Non è da lui, che diciamo - attingeva al grande cuore del mondo. Eppure nel suo editoriale sul Corriere della sera, intitolato “I ragazzi dell’era del rancore” Walter sta vivendo emotivamente «i fatti di cronaca terribili di questa stagione del nostro vivere come qualcosa di spaventosamente nuovo, di spaventosamente inedito». La cattiveria inedita dei «giovani d’oggi». Walter, accorato, sciorina la sequenza degli eventi effettivamente tragici dell’ultimo mese: il 19enne di Rozzano che ammazza per «aver passato una brutta giornata»; il 17enne di Viadana che strangola per vedere «l’effetto che fa»; l’altro 17enne di Paderno Dugnano che stermina la famiglia perché confuso; la ventenne di Traversetolo che seppellisce in giardino i figli appena partoriti. Veltroni cita l’agghiacciante elenco, e rimprovera coloro che alzano gli occhi al cielo commentando «È sempre successo...», riferito alla malvagità degli uomini. E Walter, qui, dissente con amabile ferocia: «Non è sempre successo. Non così, non tanto così. E gli adulti, quelli che hanno o dovrebbero avere più responsabilità, fanno finta di non vedere, perché questa bava di dolore e sangue chiama in causa cose profonde. Sono ragazzi italiani, sono del Nord prospero, sono di famiglie «normali». I genitori, spesso distratti da sé stessi, sono però lasciati soli, come gli insegnanti, delegittimati da uno spirito del tempo che deride autorevolezza e competenza. Tutti soli, in una spirale di violenza e in una perdita inavvertita del valore della vita umana».

Poi, mosso dal vento del logos, ecco Walter citare la “generazione ansiosa” di Haidt; e il calo di autostima dei ragazzi connaturato al calo di followers sui social; e la società digitale che «amplifica a dismisura il male naturale di vivere» e ci depriva del “sogno collettivo”. Riedizione del “sogno spezzato” suo vecchio cavallo di battaglia. Trattasi, per Walter, di un’apocalisse che si scatena sulla generazione di adolescenti incattiviti, lobotomizzati, tutti dotati di smartphone: roba che fa impallidire i piccoli guai delle generazioni precedenti. «Non è vero che è sempre successo», continua. Ora, Walter Veltroni è stato il più kenWalter Veltroni nedyano dei nostri politici. Da giovane, grondava ottimismo da ogni poro. A causa sua venne coniato il termine “buonismo”, proprio dalla tendenza a vivere la professione sempre come fosse tra le pagine del Piccolo Principe. Epperò, oggi, a 69 anni, gli s’è ribaltata l’ottica. Walter sta vivendo la grande trappola generazionale: quella della sindrome del “ai miei tempi era diverso!”, e del “si stava meglio quando si stava peggio”. In realtà, caro Veltroni, si stava davvero peggio quando si stava peggio.

 

 

La generazione di Veltroni è quella che masticava i sudari delle vittime del terrorismo; e che viveva nel fiume di sangue e tritolo della lotta armata (350 morti e più di 1000 feriti: le vittime solo in Italia). Quella di Veltroni è la generazione che inciampava nei cadaveri in strada, così senza un perché se non quello della follia eversiva all’ombra dello Stato ferito. Ed è anche quella del boom della droga. A quei tempi era tutt’un fiume di cocaina da impanarci le cotolette, che partiva da Verona, la mia città, peraltro già macchiata dagli orrendi omicidi dei giovani killer di Ludwig; mentre, contemporaneamente, i coetanei Angelo Izzo e amici compivano il massacro del Circeo. Dagli anni 70 ai 90 –gli anni di Veltroni - l’andamento della criminalità toccò l’apice dei 1916 omicidi nel ’91, contro i 746 del 2000. Male cifre contano poco. Conta di più il milieu. E il milieu scoperto da Veltroni, quello dei ragazzi straripanti di malvagità del Signore delle mosche di Golding, be’, non è dissimile da quello della generazione del Veltroni stesso. E della mia. Anche da noi c’erano i bulli; c’era chi faceva a mazzate in strada instradato dai cattivi maestri di turno; c’era chi si ammazzava, pur senza Tik Tok, perché spinto nell’abisso dal branco. Solo che se ne parlava meno, i social – certo col loro potenziale socialmente devastante - non erano ancora stati inventati, e ci s’informava attraverso il monopolio dell’informazione spesso irrigimentata della Rai. Il problema, caro Veltroni, è che, nonostante la “vigilanza sociale” più o meno assente di scuola e famiglia, i nostri figli sono sempre ostaggi dati alla sorte, come diceva Bacon. E quanto più i genitori ricercano la perfezione, tanto più scoprono che l’educazione dei figli non è un algoritmo, semmai è un’estenuata infilata di errori, di prove e riprove, di passi falsi su cui ritornare. E i mitici “tempi che corrono” diventano un dettaglio nei corsi e ricorsi della storia...

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