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Monti candidato premier: ecco le sue condizioni

Niente listone personale: Mario vuole una grande alleanza. Pressioni dal Colle perché resti fuori dalla campagna

Giulio Bucchi
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    di Paolo Emilio Russo Mario Monti non ha ancora sciolto ufficialmente la riserva. Sa bene, però, che la strada imboccata al vertice del Ppe rischia di non lasciargli altra scelta rispetto a quella di un impegno diretto. Non lo aiutano i tempi: le liste dovranno essere presentate all'inizio del nuovo anno, cioè tra due settimane lavorative. Per questa ragione gli sherpa sono già al lavoro,  sondano le disponibilità e, soprattutto, riferiscono le «condizioni» che il premier dimissionario considera «irrinunciabili».  La prima è che la sua candidatura deve essere sostenuta da un fronte molto ampio, il più possibile trasversale, o, almeno, trasferire questa impressione agli elettori. Per questa ragione il Professore ha chiesto esplicitamente ad Udc, Fli e Luca Cordero di Montezemolo via Andrea Riccardi, di abbandonare il progetto di un listone unitario di centro, la fantomatica «Lista Monti», ma di attrezzarsi a presentare ciascuno il proprio simbolo. Questa condizione, che rappresenta per le tre formazioni un grosso problema e le espone al rischio di non superare lo sbarramento, è stata accettata almeno per la Camera dei deputati. Al Senato, per avere la certezza di eleggere parlamentari, Casini, Fini e il presidente della Ferrari si presenteranno insieme. Per poter vincere il Professore sa di non potere fare a meno degli elettori berlusconiani. I quali forse saranno meno che in passato; magari non saranno motivati, ma  restano pur sempre la maggioranza dei moderati. Al di là della comprensibile irritazione per la fine anticipata (di un mese) della vita del governo, il Professore non ha mai chiuso le porte al Pdl. Sa bene, anzi, che l'operazione-crisi ha consentito al partito di Angelino Alfano di ricucire con il proprio elettorato e ha fatto da volano nei sondaggi. Un Pdl che conti poco, sia marginale, non può essere utile al premier per vincere le elezioni qualora decidesse di schierarsi ufficialmente contro il tandem Pierluigi Bersani - Nichi Vendola.  Dal canto suo Silvio Berlusconi ha cercato di creare le condizioni per una discesa in campo del Professore. Innanzitutto ha dato garanzie sulle liste “pulite” e sbandierato urbi et orbi la volontà di un ricambio netto della squadra in Parlamento, inoltre ha accettato di farsi vedere meno, qualora il progetto andasse in porto. Dunque ha congelato lo “spacchettamento” del partito, che avrebbe creato plasticamente il gruppetto degli anti-montiani. Alfano è riuscito a convincere il Cavaliere che il partito unito può diventare «azionista di maggioranza» del futuro governo, e, col voto, ristabilire le dovute proporzioni con le formazioni centriste.  Il Professore ha posto un'altra condizione dirimente: il programma. Sarà lui a scriverlo, lui a presentarlo pubblicamente «offrendolo» ai partiti politici. Sulla base di quello Monti intende raccogliere adesioni, consensi, eventuali endorsement. Non ci sarà dunque una candidatura di Monti da parte dei partiti, ma un'«offerta politica», come la definisce un ministro in carica, che ciascuna delle formazioni dovrà scegliere se ricevere o no. Dove sta la novità? Che l'«offerta» tecnicamente è rivolta anche al Pd e ai suoi alleati. Difficile che Pierluigi Bersani, Massimo D'Alema e gli altri possano considerarla «ricevibile», ovviamente. Altra storia per il gruppo dei 33 ex Popolari democratici guidati da Giuseppe Fioroni, che in questo modo potrebbero mollare gli ormeggi e incamminarsi dietro al Professore. Loro, anzi, hanno una «utilità marginale» altissima, per usare una terminologia matematica: possono consentire al Professore di presentare la proposta come «unitaria», trasversale.  Anche sulla questione del programma i pidiellini si stanno dando un gran daffare, hanno colto i segnali di fumo provenienti da Palazzo Chigi. Già questa mattina all'evento dei «montiani» del Pdl, non a caso aperto da un messaggio scritto di Silvio Berlusconi, i dirigenti azzurri tratteggeranno il loro programma politico, apertamente ispirato a quello del Partito Popolare europeo, cioè il gruppo che preme sul Professore perché si candidi. Un alibi in meno per chi, come l'Udc, vorrebbe una conventio ad excludendum. Monti, dal canto suo, si è già premurato di far sapere che «il rigore è finito», che è tempo di «crescita»: musica per le orecchie dei berlusconiani.  L'ultima questione riguarda i fedelissimi del premier. Il Professore sa che alcuni dei suoi ministri cercheranno rifugio in qualche lista. Monti non si metterà di traverso, ne ha già rassicurati un paio, ma si sta premurando di  «distribuirli» tra le varie liste eventualmente collegate, evitando che si concentrino tutti nella stessa.  L'ostacolo più grosso al piano dell'ex Rettore della Bocconi resta il Quirinale. Il Presidente della Repubblica, infatti, non vorrebbe che il premier tecnico si tramutasse in leader politico, il suo «figlioccio», nominato prima senatore a vita e poi premier, diventi ostacolo alla vittoria annunciata degli ex compagni di partito alle elezioni. Dal Colle sarebbero partite anche ieri telefonate molto chiare. Giorgio Napolitano non ha condiviso le critiche dure di Massimo D'Alema, ma continua a nutrire dubbi sull'operazione organizzata all'ombra del Ppe. È rimasto impressionato, però, dalla evidente pressione internazionale, compreso quella di molti leader della sinistra europea come François Hollande. La stessa che poco più di un anno fa l'aveva costretto a promuovere il cambio del governo e alla quale non aveva saputo resistere.      

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