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Facci: Travaglio racconta balleper tacere delle sue condanne

Marco Travaglio

Marco può parlare di "soccombenze" e incolpare i giudici. Ma le dieci diffamazioni rimangono. E, gli piaccia o no, la prescrizione lo ha salvato eccome

Andrea Tempestini
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di Filippo Facci   Marco Travaglio è rimasto così soddisfatto della sua performance contro Berlusconi, giovedì sera, che sul Fatto ha sentito il bisogno di replicare in differita per due pagine e mezzo. Ha descritto «Le dodici balle blu» e scuserete se parleremo solo della dodicesima, che poi sarebbe questa: «Travaglio è un diffamatore di professione: ha dieci condanne per diffamazione», parola di Berlusconi. Il presunto collega perciò l'avrebbe querelato   per questa frase,  o questo almeno abbiamo capito dal Fatto di ieri. Ed è un mistero: l'unica spiegazione è che lo possa querelare per la frase «diffamatore di professione», perché per il resto Travaglio ha dieci condanne per diffamazione punto e basta. Il presunto collega, tuttavia, insiste con la sua tesi originaloide secondo la quale le condanne per diffamazione sono solo penali, mentre quelle civili - come le sue - non sono condanne, e non sono neanche diffamazioni, o insomma contano poco. Testuale: «Se un giornalista viene citato in giudizio dinanzi a un tribunale civile per avergli inferto un “danno”, il giudice decreta la sua soccombenza nella causa se ritiene che il danno ci sia stato, oppure no in caso contrario». Notare la fatica per evitare i termini «condanna» e soprattutto «illecito», che in diritto civile sostituisce il reato. Travaglio, in pratica, scrive come se un tizio potesse farti causa senza che dietro al «danno» ci sia anche un illecito: è chiaro che deve esserci, altrimenti non ti condannerebbero. Ma pur di evitare il termine «condanna» eccolo stiracchiare il termine «soccombenza» (complicandosi la vita, perché la soccombenza esiste anche nel penale) e fingendo che di condanna non si parli negli articoli 91 e 278 del Codice di procedura civile, tra gli altri. Parentesi: se molti suoi amici magistrati fanno direttamente causa civile, saltando l'azione penale, è giusto per saltare un passaggio e puntare direttamente ai soldi. Chi si sente offeso nel proprio onore, infatti, può chiedere direttamente il risarcimento con una causa civile senza necessità di una penale. Può esserci un illecito civile senza che sia anche penale, mentre un illecito penale comporta sempre anche un illecito civile. Funziona così.     Traveggole  Ora passiamo alla sostanza. Il racconto (l'elenco) delle condanne l'avete già letto su Libero di ieri, quindi ora ci soffermiamo su quella che evidentemente a Travaglio brucia di più. Scrive il nostro: «Ho perso alcune cause, pagando il risarcimento del danno, mai per avere scritto il falso, ma perlopiù per casi di omonimia o per critiche ritenute eccessive o per fatti veri mal compresi dal giudice». Buona questa. Per confutare queste sciocchezze toccherebbe riportare paginate di sentenze che oltretutto ucciderebbero l'articolo: di casi di omonimia, comunque, ne risulta uno solo, mentre altre sentenze parlano di affermazioni riferite «in maniera incompleta e alterata». Ma forse dare del «figlioccio di un boss» a un assessore regionale, secondo Travaglio, è solo una critica eccessiva. Senza contare i «fatti mal compresi dal giudice», che è la più bella: ci sono anche i giudici - gli idoli di Travaglio  - che hanno evidenti deficit mentali. Roba che neanche Berlusconi.  La sostanza, dicevamo. Scrive Travaglio: «La condanna penale citata da Berlusconi non è né definitiva né caduta in prescrizione: si tratta di una condanna penale in appello a risarcire Previti con una multa di 1.000 euro su cui pende il mio ricorso in Cassazione senza che nessuno abbia dichiarato la prescrizione del reato». E qui Travaglio ha le visioni, oppure ci nasconde qualcosa. La notizia della sua prescrizione, infatti, la diedero tutti i giornali e le televisioni (anche il Tg1, lo so perché mi intervistarono) ma soprattutto ne parlò ampiamente anche Travaglio: accadeva nel suo «Passaparola» (4 aprile 2011) in cui ammetteva, nel dettaglio che «ho avuto una prescrizione e forse ne ho avuta anche un'altra... ho avuto una multa di mille euro e poi dopo l'Appello è caduta in prescrizione»; accadeva poi anche a «In Onda» (2 aprile 2011) e a «Otto e mezzo» (11 aprile 2011). Ergo: o mente, adesso, o forse ha fatto ricorso successivamente, dopo esser stato scoperto. Ma per rivelarlo ha aspettato che ad accusarlo fosse Berlusconi, seduto al suo posto.   Vediamo i fatti. La condanna in primo grado è dell'ottobre 2008: il presunto collega beccò otto mesi di prigione (pena sospesa) e 100 euro di multa. L'articolo era del 2002 e su l'Espresso era sottotitolato così: «Patto scellerato tra mafia e Forza Italia. Un uomo d'onore parla a un colonnello dei rapporti di Cosa nostra e politica. E viene ucciso prima di pentirsi». Lo sviluppo, poi, era un classico copia & incolla dove un pentito mafioso spiegava che Forza Italia fu regista di varie stragi. Chi aveva raccolto le confidenze di questo pentito era il colonnello dei carabinieri Michele Riccio, che nel 2001 venne convocato nello studio del suo avvocato Carlo Taormina assieme a Marcello Dell'Utri. In quello studio, secondo Riccio, si predisposero cose losche, tipo salvare Dell'Utri, e Travaglio nel suo articolo citava appunto un verbale reso da Riccio a proposito. Eccolo: «In quell'occasione, come in altre, presso lo studio dell'avv. Taormina era presente anche l'onorevole Previti». E così praticamente finiva l'articolo. L'ombra di Previti si allungava perciò su vari traffici giudiziari ma soprattutto veniva associato a un grave reato: il tentativo di subornare un teste come Riccio. Fine. Il dettaglio è che Travaglio aveva omesso il seguito del verbale del colonnello, ed eccolo per intero: «... era presente anche l'onorevole Previti. Il Previti però era convenuto per altri motivi, legati alla comune attività politica con il Taormina, e non era presente al momento dei discorsi inerenti la posizione giudiziaria di Dell'Utri». Insinuante  Una diffamazione bella e buona, tanto che il giudice Roberta Di Gioia del Tribunale di Roma, il 15 ottobre 2008, scriveva: «La presenza dell'onorevole Previti in un contesto di affari illeciti è stata inserita nell'articolo mediante un accostamento indubbiamente insinuante... è evidente che l'omissione del contenuto integrale della frase di Riccio, riportata solo parzialmente, ne ha stravolto il significato. Travaglio ha fornito una distorta rappresentazione del fatto... al precipuo scopo di insinuare sospetti sull'effettivo ruolo svolto da Previti». Poi il peggio: «Il confezionamento dell'articolo risulta sintomatico della sussistenza di una precisa consapevolezza dell'attitudine offensiva della condotta e della sua concreta idoneità lesiva della reputazione».  In lingua corrente: Travaglio l'aveva fatto apposta, aveva diffamato sapendo di diffamare.  «Ricorrerò in Appello» aveva annunciato il giornalista dopo la condanna: e pazienza se infinite volte si era detto favorevole all'abolizione dell'Appello. La sentenza dell'8 gennaio 2010 confermava la condanna, anche se ottenne una riduzione della pena per le attenuanti generiche. Ma Travaglio fece il furbo: «La sentenza di primo grado è stata devastata dalla Corte d'Appello, che elimina la pena detentiva e lascia una multina di 1.000 euro». Devastata. «Ora aspetto la motivazione e mi auguro che venga scritta da un giudice che abbia la più pallida idea di che cos'è un articolo di giornale».  Il problema è che la motivazione, per essere depositata, non impiegò i consueti sessanta giorni: impiegò un anno, dall'8 gennaio 2010 al 4 gennaio 2011. Così il reato cadde in prescrizione, o questo avevamo capito tutti, compreso Il Fatto Quotidiano. Dalle motivazioni: «La sentenza impugnata deve essere confermata nel merito in quanto ottimamente motivata, con piena aderenza alle risultanze processuali... È appena il caso di ribadire la portata diffamatoria nei confronti dell'on. Previti... Proprio l'averlo inutilmente nominato, e l'aver totalmente omesso la specifica precisazione circa l'assenza fatta dal teste, è prova del dolo da parte del Travaglio».  Faccia il giornalista  In sintesi: Travaglio se la prende coi giornalisti diffamatori, ma allora è un diffamatore anche lui. Travaglio è stato condannato, ma preferisce dire «soccombente». Travaglio parla solo di «danno», e non dice che in un tribunale non esiste danno senza illecito. Travaglio dice che una prescrizione non equivale a un'assoluzione ma a una condanna: ergo lui è stato condannato. Travaglio dice che un innocente che si reputasse tale dovrebbe rinunciare alla prescrizione: ma lui alla prescrizione non ha rinunciato, o questo sapevamo: se non è così ci illumini, smentisca se stesso, ci spieghi meglio. Travaglio è favorevole all'abolizione dell'Appello: ma poi ricorre in Appello. Travaglio, in passato, ha scritto che le Corti d'Appello sono degli «scontifici che mantengono inalterato l'impianto accusatorio, e che limano soltanto la pena»: è quello che è successo a lui. Travaglio è un ottimo giornalista: se solo decidesse di comin    

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