La rivincita di Rosi Mauro: "Prenderei Bobo a scopate"
«Ringrazio la procura». Dopo quasi due anni d'inferno, Rosi Mauro è uscita dall'inchiesta sui fondi della Lega. Per gli inquirenti, non s'è intascata un euro. Senatrice Rosi Mauro, parta dai mea culpa. Cosa si rimprevera? «Un po' di cose. Sono stata troppo disponibile con tutti, forse anche con Umberto Bossi. L'ho sempre seguito, anche prima della malattia, ma dopo il malore questa cosa è stata fraintesa.Poi mi rimprovero di aver sempre ubbidito alle indicazioni del movimento anche se altri se ne fregavano». È vero che lei era stata incaricata dalla moglie di Bossi, Manuela Marrone, di seguire il leader nei comizi? «Balla colossale! Ho sempre seguito Bossi, con la differenza che dopo la malattia mi capitava di viaggiare con lui. E così sono emerse gelosie». Ma dopo il malore lei lo seguiva come un'ombra. «No, quando è stato male c'erano altre persone. Io sono stata coinvolta solo in un secondo momento, da Giorgetti e dalla moglie di Bossi. D'altronde sono entrata nella Lega nel 1987!». E perché ha addirittura acquistato casa a Gemonio, a poche centinaia di metri da quella di Bossi? «Altra malignità! La verità è che non ce la facevo più, tornavamo dai comizi alle 4 del mattino e dopo un paio d'ore dovevamo ripartire. Non aveva senso tornare a Milano. E comunque la mia casa di Gemonio era solo un appoggio. Una semplice mansarda». Dopo la malattia, Bossi è diventato più influenzabile? «Macché! Distribuiva vaffa e aveva ricominciato con la solita vita. L'unica differenza è che non tutti lo interpellavano come prima o eseguivano i suoi ordini. Sono stati più furbi di me. Pensi, una volta non potevamo neanche parlare con i cronisti». Ieri Bossi l'ha chiamata? «Non ci siamo più sentiti. L'ultima volta ci siamo incrociati al Senato. Purtroppo non ho mai accettato la sua scelta di farsi da parte. Ha sbagliato». Pensa davvero a un complotto contro di lei? «Mi è stato chiesto di dimettermi quando non ero neanche indagata! E poi sono uscite delle intercettazioni dove Belsito e una segretaria parlavano di me, dicendo che volevano distruggermi. Eppure quella donna è rimasta a lavorare in via Bellerio. E Belsito non l'avevo scelto io». Lei non contava nulla? «In consiglio federale non avevo diritto di voto o di parola». Allora chi l'ha voluta rovinare? «Non so... C'è stato un attacco esterno, perché la Lega dava fastidio. E un altro attacco interno, di bassa lega, fatto da persone esaltate e gelose. Maroni-Calderoli-Dal Lago mi chiesero di lasciare la vicepresidenza del Senato, ma rifiutati. A quel punto Maroni urlò: “o lei o io”». Poi ci fu la serata delle scope. «Io ero a Porta a Porta e durante la pubblicità sentii le parole di Maroni che chiedeva un padano per il Sindacato padano. A quel punto mi convinsi: “non mi dimetto, non faccio il capro espiatorio”. Lo avrei presi a scopate in testa! Perché mi dovevo dimettere?» Forse per opportunità politica? «Quale opportunità politica? C'è gente che ha continuato a lavorare in Bellerio! Il Sindacato Padano non ha mai preso soldi pubblici». Parlavamo di Belsito. «Per due anni non gli ho rivolto parola. Il precedente tesoriere, Balocchi, era ancora in vita e altri leghisti come Rixi, ora vicesegretario federale, mi dicevano che era un bravo ragazzo. E che si lamentava perché non lo salutavo mai». Però, proprio insieme a Belsito, lei era legato federale in Liguria. Una specie di commissario. «Non l'avevo deciso io ma il consiglio federale. In quegli anni avevamo preso tanti consiglieri regionali e parlamentari, lavoravamo bene». Dopo torniamo al suo ruolo di legato. Sapeva dei diamanti? «Erano decisioni dei vertici, non mie. Comunque sapevano tutti». E le sembravano cose normali? «No, ma mi risposero che non capivo nulla. Purtroppo erano discorsi privati e quindi smentibili». Lei era legato in Liguria ed Emilia Romagna. E si raccontò che voleva scalzare Giorgetti in Lombardia. «Falso! Chiamai Giorgetti per dirglielo. E a proposito dell'Emilia, anche lì avevamo ottenuto ottimi risultati. A Bologna il nostro Bernardini andò benissimo. Me ne fregavo quando mi dicevano che era maroniano». Però lei è arrivata in Regione Lombardia e al Senato senza voti. «È stato il movimento a volermi candidare. Io volevo occuparmi di lavoro, Bossi mi chiamava per quello. Potevamo ottenere maggiori risultati, anche quando avevamo il Welfare. I primi litigi con Maroni risalgono a quegli anni». Risposta secca: Bossi sbagliò a candidare suo figlio Renzo? «Lo chiese al federale e nessuno disse no. In privato, le lascio immaginare come potevo pensarla. Come minimo era troppo giovane. Reguzzoni? Per un anno non ci parlammo». Cosa pensa di Salvini? «Ha risollevato la Lega che Maroni aveva mollato. Però ha un progetto diverso dalla mia Lega». di Matteo Pandini