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Paolo Gentiloni, il piano per scavalcare il capo Matteo Renzi

Andrea Tempestini
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L'adulazione nei confronti dei potenti non è proprio l'ultima delle italiche tradizioni. Figurarsi se non deve farci i conti qualsiasi presidente del Consiglio. Paolo Gentiloni come tutti i suoi predecessori: sondaggisti pronti a compiacere il premier sfoderando rilevazioni sulla popolarità sempre gratificanti per lui, complimenti ovunque ti giri, incoraggiamenti, strizzatine di occhio dei vari poteri, incenso che si spande su parte non indifferente di molti media. È una specie di festa tradizionale, che si ripete sempre identica a se stessa con ogni potente. Piacevole e innocua se vissuta fingendo orgoglio e ridendosela fra sé e sé. Velenosa e molto pericolosa se l'incensato inizia a crederci, gonfia il petto, si ritiene in grado di fare cose che noi umani mai avevamo visto prima e alla fine va a sbattere inevitabilmente la testa contro il muro. Negli ultimi anni l'incenso ha avvolto premier come Mario Monti, Enrico Letta, Matteo Renzi e ultimo proprio Gentiloni. Solo Monti ha pensato bene di provare a verificare quel che tutti gli dicevano. Si è presentato da gran vincitore alle elezioni 2013 con un suo partito personale, e dopo avere misurato il consenso reale, si è ritirato il giorno dopo dalla scena politica. Enrico Letta non ha avuto nemmeno il tempo di godersi quel mondo dorato in cui tutti battevano le mani e gli assicuravano gran galloni di popolarità, che tutto era già evaporato con Renzi che gli aveva bucato il sogno. Il suo successore è salito sugli altari e precipitato nella polvere con tale turbinio da guardare ormai a distanza gli incantatori di serpenti intorno. E Gentiloni? Qualche mese fa proprio Libero aveva profetizzato che la sua strategia dell'assenza gli avrebbe dato quella forza politica che l'ex collaboratore di Francesco Rutelli non ha mai avuto in tanti anni di onorata militanza e carriera. E settimana dopo settimana è davvero accaduto. O almeno così hanno raccontato al diretto interessato: «Dopo anni di politica muscolare, il tuo stile pacato e non protagonista incanta gli italiani, che sempre più hanno fiducia in te». Eh sì con Gentiloni si è tornati a quella retorica della sobrietà che accompagnò a palazzo Chigi Monti e il suo loden. Due storie parallele davvero, con molti punti in comune: lo stacco da presenze politiche roboanti (per uno Berlusconi, per l'altro Renzi), l'iniziale desiderio di non apparire, il profumo di incenso che poi inebriava, l'incapacità di distinguere la cortigianeria e la realtà. Da qualche tempo a questa parte Gentiloni sembra davvero credere a quel che si dice di lui, ai battimani di palazzo, ai complimenti furbi e sempre untuosi degli altri potenti, a quegli indici di popolarità che continuano a sfoderarti sotto il naso e che sempre si sono rivelati tragica illusione. Ci crede, ci crede sempre di più. E quella assenza, quella presenza discreta mai in prima fila sta cambiando. Fino al culmine del caso Visco-Bankitalia con quella vistosa ribellione di Gentiloni all'amico Renzi che era pure suo dante causa a palazzo Chigi. Scelta muscolare che mai nessuno avrebbe pronosticato, pronta in un attimo ad umiliare e annientare quel «rottamiamo» - slogan che aveva fatto la fortuna di Renzi e del Pd - con l'arma antica e micidiale della restaurazione. Un altro Gentiloni davvero. Non tragga in inganno l'abbraccio del giorno successivo con l'amico da lui tradito davanti alla conferenza programmatica del Pd a Napoli: era rito tanto necessario da celebrare quanto bugiardello nella sostanza. Proprio lì a Napoli si è capito che sì Gentiloni ora ci crede, come ci credette Monti. Bastava vederlo salire in cattedra e arringare la platea del partito come fosse lui il nuovo Renzi, e scandire come un vero capo: «De Coubertin non è nel nostro Pantheon. Il Pd è in campo per vincere e governare». E poi dettare le regole allo stesso segretario del Pd chiedendogli di cascare nell'abbraccio letale di Massimo D'Alema e del suo Mdp: «Un assetto il più largo possibile, aperto verso il centro e la sinistra, per vincere e governare. Non possiamo scherzare su questo. Dobbiamo lavorare con forza. Perché un Pd unito e competitivo, ambizioso e credibile, non è solo un valore per il Pd: può far vincere l'Italia». Tutti gli fanno credere che la via passa da lui: pronti a fare alleanze se chi gli ha dato la vita - Renzi - farà un passo di lato. A forza di sussurrarglielo, è evidente che Gentiloni ci crede: è lui la soluzione ad ogni caos, il salvatore dai guai, il solo in grado di succedere a se stesso con l'applauso di tutti. Fosse costretto a correre davvero e a chiedere il voto degli italiani, avrebbe probabilmente l'amara sorpresa che è toccata in passato ad ogni leader creato in laboratorio. Ne sa qualcosa Monti e come lui Gianfranco Fini che qualcuno aveva illuso come capita ora a Gentiloni di un improbabile trionfo una volta data la spallata a chi l'aveva resuscitato... di Franco Bechis @FrancoBechis

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