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Umberto Bossi, i suoi commoventi 80 anni. Renato Farina, Berlusconi e la malattia: il retroscena sul Senatùr segreto

Renato Farina
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La casa di Gemonio di Umberto Bossi non si presta alla mondanità, sembra costruita apposta per le quiete feste familiari. Si erge anonima e prealpina, ma cattura il cuore, di qui è passata la storia e ci abita uno che la storia l'ha fatta sul serio. Per gli ottant' anni del Senatùr è perfetta. Uguale a lui, pane, salame, Coca-cola e politica. Eh sì, la politica, una malattia che mette a cuccia gli altri malanni: l'infarto e i vari accidenti che da quel tremendo 11 marzo 2004, quando il suo petto diventò nero e il volto cianotico, lo trafiggono, lo buttano giù, ma lui si rialza ogni volta. Non bastassero gli smottamenti del corpo, ci sono state le percosse della magistratura e la trascuratezza umiliante dedicatagli da certa dirigenza della Lega, che si crede un partito ma in realtà è un parto di Bossi, e lui non rinnegherà mai un figlio anche quando lo tratta da rimbambito. Tutto gli è accaduto, persino lo spettacolo delle scope ripulitrici, senza che mai si sia sbiadito in lui quel pensiero lì, la-Le-ga!, e un sotterraneo buonumore, perché molto utile è stata la sua vita.

 

 

 

 



COLLEGATO CON PONTIDA - Chi l'ha frequentato, sa che il sottofondo permanente della sua strategia e della sua tattica, che fu spesso spregiudicata, si concentra in una parola "libertà", ma non gridata nella foresta illusoria delle idee, ma coniugata in una formula: "Padania libera", la sua gente, la sua terra. Solo i cretini o gli invidiosi possono trattare la sua vicenda come la parabola di un estremista velleitario finito nella carrozzina del patetico sognatore. Non c'è stato nessuno, nell'Italia Repubblicana, che partendo dal niente, senza mezzi, senza amicizie potenti, senza neppure appoggiarsi a ideologie, sia riuscito a cambiare come lui il corso della vicenda italiana, impedendo che la ribellione di vaste fasce popolari del Nord avesse anche un solo minimo tratto violento. Quest' oggi, l'Umberto avrà intorno la moglie Manuela, i figli, alcuni antichi amici. Ci sarà un collegamento video con la sua Pontida. Lo slogan che di sicuro intonerà mescolando la voce al fumo del mezzo toscano Garibaldi è quello lì: «Padania libera!». Ci scommetto. Guai a chi la butterà sul folklore, anche se tutto trascina a spalmare sui giornali e sulle tivù i colori di un autunno del patriarca. Padania è un termine scomparso dal vocabolario di qualunque persona che frequenti i social e assista ai talk-show. Ma bisognerà pure scavarci dentro, almeno adesso che compie 80 anni si dovrebbe imparare ad afferrare il concetto. Padania libera non è in Bossi un modellino medievale di Stato, un fortilizio intorno a cui innalzare mura, ma è un amore dinamico per un popolo concreto, per operai, piccoli imprenditori, vecchi, che sono stati derubati da un potere centrale (Roma!) della loro libertà di costruire un destino florido, fatto di comunità locali e democratiche che si allacciano tra loro e costruiscono grandi regioni qui e oltre le Alpi. Non ha mai creduto a una ridotta lombardo-veneta. Minacciava «secessione» per avere la «devoluzione». Non è mai stata una faccenda solo di economia. Era per lui una questione spirituale, anzitutto.

QUALCHE CASINO - Questa è stata la chiave del suo clamoroso successo all'inizio degli anni 90. Bisognava andare a Pontida per farne esperienza. Si percepiva il respiro della storia. I discorsi di Bossi non finivano mai. Ma cosa teneva lì decine di migliaia di persone, fino a un attimo prima di tendenze politiche opposte? Sentivano scalpitare i cavalli di un destino libero per le prossime generazioni. Il movimento da lui fondato era cominciato prima di Mani pulite. Lo intervistai nel 1990 nello sgabuzzino al Senato dove stava con un vecchissimo addetto stampa, di nome Rossi. Anticipò i discorsi sindacali dei primi anni del 2000, con i contratti da fare localmente, con un'idea di federalismo alla Cattaneo, dove si sentiva il bisogno lancinante di salvare l'essenza di una cultura del lavoro e della solidarietà familiare e sociale, intorno alle campane e alle sirene delle fabbriche, e al coro degli alpini. In lui quella che in altri era nostalgia canaglia, si fece progetto politico, economico, tattica di conquista elettorale. Un fuoriclasse.

 

 

 

 

Era l'unico senatore della Lega, c'era un deputato, l'architetto Giuseppe Leoni. Quattro anni dopo erano circa duecento. Ha combinato casini. Un po' glieli ha suggeriti il presidente Oscar Luigi Scalfaro. Nel 1994 ha disfatto un governo che con Berlusconi e Fini poteva davvero metter su quel suo federalismo che egli esasperava parlando di indipendenza, e invece si lasciò avviluppare dalle moine auliche dei notabili della Repubblica. Bisogna dire che a quel tempo il Cavaliere e Fini non ne compresero la natura impetuosa di torrente di montagna, e lo lasciarono solo con la sua canottiera. Poi ha imparato. Dopo aver corso in solitaria nel 1996, con un clamoroso successo, ma consentendo la vittoria di Prodi e del suo centrosinistra senza trattino, grazie a Giulio Tremonti si strinse di nuovo a Berlusconi. Un attimo prima lo chiamava Berluskàz. Lo appellava così e però intanto si contrapponeva all'ideologia prodiana e post-comunista di D'Alema.

 

 

 

 


UN COMIZIO MEMORABILE - Partecipai a un memorabile comizio di Bossi a Bergamo, nell'ottobre 1997. Con la sua capacità di rendere semplici le questioni difficili, impostò il suo discorso su questo concetto: «L'uomo non è una bistecca». Insomma, non è solo economia: non di solo pane vive l'uomo. Bossi tuonava contro Berluskaiser, in quanto devastatore della cultura della famiglia con le sue tivù commerciali. Gli bastò rivederlo, risentirlo, passeggiare segretamente con lui calcando i prati fioriti di Arcore, e l'Umberto capì che alla fine il Berlusca ha un sentimento positivo della vita, mette al mondo figli, ci tiene alla tradizione cristiana, e li accomuna una certa birbante propensione gnocchesca. Preferì lui a chi vuole iniettare il veleno nell'idea stessa di famiglia. Tra l'altro questo discorso si congiunge a quello dell'economia. Il nostro benessere si regge sulla piccola e media impresa, sulla capacità di lavoro legata al buon nome della ditta. E questa si sostiene grazie alla cultura cattolica e alla sua concezione della famiglia. Su questa base di idem-sentire l'amicizia tra l'Umberto e il Silvio (in Lombardia è obbligatorio l'articolo) si è sigillata in un patto molto più in profondo della politica, alle sorgenti del perché stare al mondo. «I pasticci del corpo», così li chiama Bossi, di cui è tuttora ricca la --- vita di entrambi, li hanno sempre affrontati allo stesso modo: combattendo, mai uscire dal campo di battaglia, un ritrovarsi nell'antica fede della propria stirpe. A parte Pontida, e l'epica di certi incontri, c'è stato un momento assoluto in cui il Senatùr è stato scarnificato dalla vita e l'ha esaltata fino alla sua segreta essenza. Un fatto che da solo dovrebbe meritargli il titolo di Senatore a (lunga) vita per aver illustrato come pochi altri cosa sia la passione politica che va oltre i propri guai, persino trapassando lo schiacciasassi dell'agonia.

QUESTIONE DI AMICIZIA - Era il 1° giugno del 2004. Alle 15 e qualche cosa di quel giorno Radio Padania trasmise un suo messaggio. L'aveva portato la moglie, era stato inciso su una microcassetta la sera prima nella clinica di Lucerna. Un minuto e quaranta secondi, ed il respiro era più sonoro delle parole. Alleati e avversari si sono stretti intorno a quella voce frantumata e affannosa come se fosse un feretro, i nemici si sono comportati come se avesse parlato uno zombie. Data da quell'ora la raffigurazione della sua persona come il mostro Hannibal (Rai 3), sfregiato per aver esibito la malattia come «i malati di Lourdes» (Repubblica). Invece era politica pura, quando essa coincide con la passione di affermare un ideale, anche se si è ridotti a catorcio e uno è «schiacciato dal dolore». Bossi descrisse la «sberla» dell'11 marzo. Spiegò con ironia: «Sto abbastanza bene, nel senso che non sono morto». Ho riascoltato quel nastro. Evoca il sentirsi morire, la percezione inesorabile della fine che è una sofferenza scioccante, ed è la più grande di tutte. Poi: dice «Pontida». E ancora: «Vi saluto con tanta simpatia e tanta amicizia». La parola a-mi-ci-zia è scandita con tenerezza, e la suscita. Il leone prova a ruggire, e la sua nidiata gli si stringe intorno. La sua voce pareva quella di papa Wojtyla la domenica dopo l'attentato del 13 maggio 1981. Sconfortò i fedeli, che tremarono ancor più per la sua salute, ma li confortò nel loro credo pregando con loro la Madonna. Senza esagerare con la mistica, Bossi lo ha imitato. Con la differenza che morto un Papa se ne fa un altro, per i Bossi si è rotta la macchinetta. Cento di questi anni, Senatùr.

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